[SIZE=3.0em]Gli storici puliscano la Storia, di Ubado Sterlicchio[/SIZE]



La Storia scritta dai vincitori ed, in particolare quella che narra gli avve-nimenti del risorgimento italiano, è una storia «sporca»; vale a dire mani-polata, disseminata di luoghi comuni, di omissioni, di inesattezze e, soprat-tutto, di falsità. Negli anni immediatamente successivi all’unificazione della Penisola, ad opera degli storiografi ufficiali, il cui «posto di lavoro» dipendeva dalla protezione offerta loro dal governo sabaudo, vennero date alle stampe de-cine di ponderosi volumi e migliaia di documenti contenenti imprecisioni di maggiore o minore entità: alcuni ritocchi erano piuttosto superficiali, al-tri invece riguardavano l’omissione dei nomi di alcuni personaggi, l’aggiunta di intere frasi, la cancellazione di osservazioni «non patriotti-che».( )
Emblematiche sono le favolette, inventate di sana pianta, per magnificare il c.d. padre della patria Vittorio Emanuele II di Savoia, al cui nome fu pe-raltro abbinato l’epiteto di «re galantuomo». Una per tutte, ricordiamo la storiella del suo incontro, a Vignale, con il generale austriaco Josef Ra-detzky, avvenuto dopo le sconfitte subite dalle truppe piemontesi nel corso della prima guerra d’indipendenza ed a seguito dell’abdicazione di suo pa-dre Carlo Alberto.
La piaggeria degli storiografi risorgimentalisti ha descritto l’episodio come uno «scontro fra titani»: da una parte un vecchio reazionario, intenzionato a punire quell’insignificante Piemonte cancellandolo dalla carta geografi-ca, dall’altra un giovane re, risoluto nel rispetto e nella fedeltà ai princìpi della libertà e della costituzione. Essi misero in bocca a quest’ul-timo la frase tanto cara alla retorica patriottarda: «I Savoia conoscono la via dell’esilio, mai quella del disonore».
Lorenzo Del Boca, nutrendo seri dubbi sulla veridicità di questa narrazio-ne, ritiene che Vittorio Emanuele quella frase «probabilmente non la pro-nunciò mai, perché non era in grado di… pensarla».( )
Ma gli storici di regime, definiti da Antonio Gramsci «scrittori salariati»( ) e da Angelo Manna «servi del mendacio, storiografi venduti e giornalisti ignoranti»,( ) hanno soprattutto fatto a gara nel partorire stucchevoli men-zogne sui Borbone e su Napoli. A causa di ciò, oggi, anche per gli storici più onesti, quantunque in possesso di prove inoppugnabili e con documenti originali alla mano, risulta estremamente difficoltoso sfatare ben oltre 150 anni di bugie, propinate attraverso opere letterarie ed imposte nelle scuole, dai media e nelle più autorevoli sedi istituzionali. Con atteggiamento ma-nicheo, i risorgimentalisti hanno collocato tutto il «Bene» dalla parte dei rivoluzionari giacobini del 1799, di Garibaldi, di Mazzini, di Cavour, di Vittorio Emanuele II, e tutto il «Male» dalla parte dei Borbone e di quegli illustri meridionali che, comunque, resero il civilissimo Regno delle Due Sicilie lo Stato più prospero ed evoluto d’Italia, nonché uno dei primi in Europa.( ) Infangare la memoria dei Borbone fu, per i nuovi padroni sa-voiardi, una vera e propria necessità, poiché dovevano giustificare in ogni modo una barbara invasione, i successivi massacri e la conseguente colo-nizzazione del Sud; pertanto, solo accuse molto gravi a carico dei prece-denti governanti avrebbero potuto fornire, agli occhi dei politici del tempo e della storia, un buon alibi.( )
Per contrapposizione logica, ai cc.dd. «padri della patria» fu attribuito il merito di aver salvato il Meridione, altrimenti condannato all’arretratezza, all’improduttività, all’ignoranza.
A tale riguardo, appare estremamente illuminante quanto ci rivela il pro-fessor Domenico Razzano, uno dei tanti storici onesti, ma puntualmente ignorati dalla storiografia ufficiale: «Tutta la rivoluzione italiana [leggasi: risorgimento, n.d.r.] fu orientata così: travisare in male quanto era possibi-le del molto buono esistente nel Mezzogiorno, e ciò che non era possibile assoggettare a denigrazione tacerlo come non esistente; ingigantire il poco cattivo che vi era, presentandolo elevato alla massima potenza: trattare con metodo nettamente inverso il poco buono e il molto cattivo del Piemonte; e quello che non era possibile occultare del molto cattivo del Piemonte tra-durlo in libera traduzione a carico del Mezzogiorno…».( )
In occasione, poi, delle celebrazioni del 2011, hanno visto la luce pubbli-cazioni pseudo-storiche, aventi titoli ingannevoli e recensioni fuorvianti; il tutto dettato principalmente da meschine esigenze commerciali. Ed è stato veramente penoso leggere ancora una volta sfacciate bugie, come quella del «Sud povero e arretrato» (a differenza del Nord, in particolare il Pie-monte, ricco ed evoluto),( ) ovvero quella della c.d. «negazione di Dio»;( ) inesattezze storiche, come quelle sui fatti a seguito dei quali fu affibbiato a Ferdinando II l’epiteto di «re bomba»;( ) puerili luoghi comuni e falsi sto-rici, come il «facite ammuina» ed il «festa, farina e forca»; grossolanità senza fondamento scientifico, come quella concernente la morte di Ferdi-nando II che sarebbe avvenuta a causa del colera;( ) nonché squallidi pet-tegolezzi da comari, privi di qualsivoglia valore ed interesse storico, come quello di una presunta sorveglianza notturna, che sarebbe stata affidata ad un sacerdote, nei confronti del futuro re Francesco II, affinché quest’ultimo non commettesse «atti impuri» [sic!].( )
Il filo conduttore che emerge resta comunque sempre quello della denigra-zione dei Borbone e di Napoli, dei meridionali e del Sud.
È fuori discussione che il Regno della Due Sicilie non fosse un «paradiso in terra», ma è altrettanto vero che era una nazione normalissima, non peg-giore degli altri Stati d’Italia e d’Europa, «con un proprio percorso storico e civile sostanzialmente coerente con il territorio e con le aspirazioni, le vocazioni dei suoi popoli», come giustamente evidenzia Gennaro De Cre-scenzo.( ) Il Sud borbonico, spiega meglio Nicola Zitara, era «un Paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l’estero facilitati dal fatto che, nel settore delle produzioni mediterranee, il Paese meridionale era il più avanzato al mondo, saggia-mente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza stra-niera… Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo ter-ritoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misura-re la crescita in relazione all’occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali fossero ottusamente sacrificati (come nel Regno di Sar-degna), ma era una classe al servizio dell’economia nazionale».( )
Nicola Zitara
Alla metà dell’Ottocento, il Regno delle Due Sicilie era certamente avviato verso l’indu-strializzazione, benché la presenza di fabbriche di grande im-portanza fosse limitata a Napoli, ad alcune zone del casertano e ad alcuni impianti siderurgici in Calabria. Lo stabilimento di Pietrarsa, nel napoleta-no, era tuttavia la più grande industria metalmeccanica d’Italia. Insomma, «nell’Italia meridionale non c’era da scialare, ma nessuno moriva di fame, almeno a quei tempi, mentre… in tutta l’Inghilterra l’uomo del terzo stato, il plebeo, conduceva un’esistenza infinitamente più squallida e miserabile, quale mai lazzarone napoletano o pastoriello di Calabria o Basilicata co-nobbe», scriveva Carlo Alianello.( )
Un’altra verità storica, sapientemente occultata dalla storiografia risorgi-mentalista, è stata quella che, subito dopo l’unità, fu combattuta una cruen-ta guerra civile, con centinaia di migliaia di morti (furono uccisi non meno di 700 mila meridionali) ed 84 paesi rasi al suolo, passata alla storia sem-plicisticamente come «lotta al brigantaggio».
Carlo Alianello
I Savoia hanno fatto credere di aver «liberato» il Sud dalle angherie di un regime tirannico e dalla fame. Ma dopo oltre 10 anni di rivolte contro l’occupante sabaudo, soffocate con durissime e sanguinose repressioni, i-niziò un massiccio esodo di popolo, da quel Sud ove prima erano scono-sciute la disoccupazione e l’emigrazione (dall’unità ad oggi, il Meridione ha avuto non meno di 20 milioni di emigranti). «Come mai – si chiese Pie-tro Calà Ulloa – gli abitanti delle Due Sicilie, i quali non lasciavano la loro Patria se non per viaggiare, siano spinti ora da questa furia di emigrazio-ne?».
E poiché, come sosteneva Sofocle, «nessuna menzogna giunge ad invec-chiare nel tempo», oggi possiamo affermare, sulla base delle incontrover-tibili verità storiche finalmente emerse da inoppugnabili documenti d’archivio, che la Sardegna dei Savoia era ben più depressa della Sicilia dei Borbone e che Napoli era ben più civile e moderna di Torino. Peraltro, già nel 1902, lo storico inglese Bolton King, uno dei primi ad avviare un’onesta riaffermazione della verità storica, affermò che «nessuno Stato in Italia poteva vantare istituzioni così progredite come quelle del Regno delle Due Sicilie».( )
La storia del cosiddetto risorgimento, pertanto, deve essere interamente ri-scritta sulla base dei documenti e non con spirito di parte, come invece hanno purtroppo fatto gli storiografi risorgimentalisti; e lo storico intellet-tualmente onesto deve prendere in considerazione anche le ragioni dei vin-ti. Perché non è cosa onesta dimenticare, ma occorre far conoscere a tutti la verità – anche se scomoda! – per togliere quella cappa di menzogne che ancora grava sugli eventi che portarono alla conquista del Sud. E la verità deve essere conosciuta appieno soprattutto dai giovani, smettendola di rac-contare loro le solite favolette risorgimentali, perché ingannare i nostri ra-gazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti!) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Ciò che deve prevalere è, innanzitutto, l’onestà intellettuale. Si chiamino, quindi, le cose con i loro veri nomi: una strage è una strage, un assassino è un assassino, un ladro è un ladro. E, nell’assoluto rispetto della verità, l’attività di ricerca e di divulgazione storica deve avvalersi di inconfutabili testimonianze coeve e di inoppugnabili documenti d’archivio, che attestino in maniera inequivocabile la certezza e la veridicità degli accadimenti.
«Verum ipsum factum» sentenziavano i latini; ed ogni affermazione degli storici deve essere sempre supportata da documenti di indubbia autenticità.
All’esatto contrario si sono purtroppo conformati, per oltre un secolo e mezzo, gli storiografi risorgimentalisti, i quali non hanno provato alcuna remora o vergogna nell’infarcire di grossolane menzogne quei testi di sto-ria che sono tuttora in uso presso le scuole italiane.
Ed è appena il caso di evidenziare che «intellettualmente onesto» è colui che non ha remore nel modificare il proprio pensiero per conformarlo alla verità; «intellettualmente disonesto» è invece colui che non ha remore nel modificare la verità per conformarla alle proprie opinioni, alle proprie ide-ologie.
Gli storici, quindi, hanno il dovere deontologico di attenersi alla sola «ve-rità» e di «pulire» la Storia attraverso un’opera di onesto revisionismo, mai dimentichi delle sagge parole di Javier Cercas: «Ma che… ci siano degli storici che eludano la realtà o si mordano la lingua o rinuncino al corag-gioso rischio dell’interpretazione e si rassegnino alla docilità pusillanime dell’ortodossia accademica o ideologica sarebbe una catastrofe da cui nes-suno uscirebbe vincitore, salvo quelli che mentono, manipolano e ignora-no. In fin dei conti, il mestiere dello storico non consiste soltanto nel rac-contare la storia, ma anche – e in fondo è la stessa cosa – nel rivedere o “revisionare” come la storia sia stata raccontata, e nel revisionare la revi-sione e la revisione della revisione e la revisione della revisione della revi-sione, e così all’infinito. Vedendo le cose in questa prospettiva, bisognerà concludere che la qualifica di revisionista, applicata agli storici, è quasi pleonastica. Se vediamo le cose in questa maniera, il revisionismo è uni-camente ciò che praticano i veri storici».
La Storia va, pertanto, ripulita dalle luride incrostazioni della tronfia reto-rica risorgimentale, dai pregiudizi sull’Italia preunitaria e dalla smodata esaltazione dei falsi miti e dei falsi eroi, artatamente creati a tavolino dalla storiografia di regime, che tanto male hanno prodotto in più di 150 anni, facendo scempio della verità storica e mortificando la dignità del nostro Popolo.
Bertold Brecht
E, nel concludere, voglio rammentare agli storici – e non solo a loro! – la severa ammonizione di Bertold Brecht: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente!».

Gli storici puliscano la Storia, di Ubado Sterlicchio at NUOVO SUD