Il Cristianesimo in Giappone
(di Emanuele Gagliardi su Radici Cristiane n. 5)
La religione giapponese
Le prime navi portoghesi attraccano presso le coste del “Paese degli ottomila dei” nel 1542. Quanto a religione i giapponesi sono shintoisti o buddhisti. Lo shintoismo è un politeismo naturalistico che venera divinità riferite a fenomeni naturali e a personaggi storici, in particolare gli imperatori (fino alla rinuncia alla “natura divina” di Hirohito nel 1946).
Al centro della mitologia shintoista è la coppia divina - Izanagi e Izanami - e la dea del Sole Amaterasu, antenata della dinastia regnante che è perciò di origine divina.
Lo shintoismo è il collante - religioso, sociale e filosofico - che mantiene unita la cultura nipponica allorché entra in contatto con la cultura cinese e con quella occidentale, che infonde nei giapponesi la forza morale per risollevarsi dopo la sconfitta dell’ultima guerra ed ispira altresì il loro peculiare senso estetico. Dalla seconda metà del XIX secolo è l’unica religione di Stato.
Il buddhismo viene introdotto dall’India attraverso la Cina e non sostituisce lo shintoismo, ma vi si fonde. L’aspetto sincretistico è peculiare in Giappone come in Cina, favorito dalla mentalità orientale. Dal buddhismo deriva lo “zen” (meditazione): itinerario di illuminazione - che deve essere esclusivamente appreso da un maestro che guidi un’esperienza vissuta in prima persona - finalizzato al raggiungimento di una comprensione intuitiva della realtà non mediata dalla ragione.
Il buddhismo zen esercita notevole influenza sulla cultura giapponese anche perché la linearità dottrinale, la morale austera, la meditazione e l’autocontrollo, combinano con la mentalità della classe guerriera al potere.
L’arrivo del cristianesimo: san Francesco Saverio
L’introduzione della dottrina cristiana nel Sol Levante è legata al nome del gesuita Francesco Saverio che, per volere del Re del Portogallo Giovanni III giunge a Goa nel 1542. Fino all’autunno 1545 resta tra le Indie e Ceylon poi approda a Yogoshima nel 1546.
Saverio, anticipando ciò che farà il confratello Matteo Ricci in Cina quarant’anni più tardi, fa suoi i costumi nipponici: siede sui talloni, fa gli inchini, consuma cibi locali e dialoga con il popolo. Visita molti monasteri buddhisti, conversa con i bonzi ma non si fa illusioni: le loro idee sono distanti e, senza dubbio, si arriverà allo scontro, nonostante molti dignitari e samurai si convertano alla fede cristiana.
Il sogno di Francesco Saverio è portare la Parola di Dio in Cina. Parte, ma si ammala durante il viaggio. Sbarca sull’isola di Sanchan, a sud di Macao, ove muore il 2 dicembre 1552. È proclamato santo il 12 marzo 1622. Diviene poi Patrono dell’Oriente Cristiano, Patrono dell’Opera della Propaganda della Fede e, infine, Patrono delle Missioni insieme con Santa Teresa di Lieseux.
Iniziano le persecuzioni
I gesuiti comprendono che per ottenere consensi e conversioni devono anzitutto guadagnare al Cristianesimo i daimyô (feudatari), ma l’ostilità del clero buddhista è più potente di questi. Con l’ascesa al potere di Oda Nobunaga che ha in odio i bonzi, però, i religiosi si vedono accordare un favore che non avrebbero neppure osato sperare.
Al pari di Nobunaga, anche il suo successore Hideyoshi ha lottato contro i bonzi e spezzato la loro potenza, tuttavia non vuole perseguitare sistematicamente la chiesa buddhista. Con il cristianesimo è dapprima tollerante, ma poi comincia a paventare che la comunità cristiana possa coalizzarsi per separare la grande isola meridionale dall’Impero nipponico.
Emana un editto che impone ai religiosi di lasciare il Sol Levante. Vengono demolite delle chiese, però i circa 120 missionari sono lasciati liberi di disperdersi nei territori dei daimyô filo-cristiani oppure di raggiungere la Cina o vivere ritirati dove meglio credono.
I primi martiri
Ad ottobre del 1596 il galeone spagnolo “San Felipe” si incaglia nel porto di Urado. Il carico viene confiscato e la presenza di armi desta sospetti nei giapponesi e pare confermare i timori di Hideyoshi che scatena una spietata rappresaglia: 26, tra francescani spagnoli e cristiani giapponesi, vengono condannati alla crocifissione. I 26 protomartiri nipponici vengono crocifissi il 5 febbraio 1597 presso Nagasaki. Nel 1627 Urbano VIII li dichiara Beati e Pio IX li fa santi l’8 giugno 1862.
Al tiranno Hideyoshi succede Ieyasu. Nei riguardi dei cristiani il nuovo shôgun si dimostra conciliante, ma solo per diplomazia e convenienza politica poiché è un fervente buddhista. Grazie a questa apertura la fede cristiana giunge fino alle province settentrionali.
L’acuirsi della persecuzione
La malevolenza dei bonzi e le calunnie dei commercianti olandesi e inglesi, però, convincono lo shôgun ad emanare un nuovo editto anti-cristiano seguito da un provvedimento di proscrizione totale. I missionari vengono scacciati, molti cristiani esiliati nei territori settentrionali, uccisi o costretti ad espatriare. Le chiese vengono rase al suolo e si succedono ondate di persecuzioni.
Dopo Ieyasu, il figlio Hidetada ordina l’esilio per tutti i religiosi e proibisce ai giapponesi, sotto pena di morte, di aver contatti con i cattolici. Hidetada lascia poi la carica di shôgun al figlio Iemitsu, anch’egli deciso ad estirpare la “perversa religione” dall’Impero. Iemitsu ordina la deportazione di missionari e laici spagnoli e proibisce la navigazione ai giapponesi convertiti. I pochi religiosi che riescono a penetrare in territorio nipponico vengono arrestati e decapitati.
La grande rivolta popolare
Il 1637 è l’anno di uno degli episodi più significativi della storia del Cristianesimo in terra nipponica. La penisola di Shimabara e le isole Amakusa, abitate da migliaia di cristiani convertiti, sono dominate dai tiranni Matsukura Shigeharu e Terazawa Hirotaka. Non solo gabelle insostenibili e lavoro disumano straziano la vita dei contadini: la ferocia dei despoti li colpisce con pene atroci per la loro fede “barbara” o per ogni piccola mancanza.
Muoiono a centinaia, crocifissi, bolliti vivi, soffocati dal fumo dopo essere stati appesi a penzolare sopra pire accese. La situazione è così drammatica che i contadini si decidono ad un disperato tentativo, guidati dal giovane guerriero Masuda Shirô. In ottobre, insieme con numerosi ronin (samurai senza padrone), lanciano la rivolta e in breve riescono a conquistare la penisola giungendo alle porte del castello. Gli insorti sbaragliano le truppe dei tiranni i quali chiedono soccorso allo shôgun.
Affrontati dalle truppe di quest’ultimo, i ribelli – 20.000 uomini in armi e 17.000 tra donne e bambini - ripiegano strategicamente nel castello di Hara. Al riparo nella fortezza gioiscono per le insperate vittorie e tengono testa ai samurai dello shôgun per quattro mesi, prima che i rigori dell’inverno e la scarsità di provviste comincino a farsi sentire.
Temendo il prolungarsi dell’assedio, che avrebbe significato la sicura morte per inedia, i rivoltosi prendono l’iniziativa e scatenano un raid notturno. 380 di loro cadono e altri, fatti prigionieri, rivelano sotto tortura che i loro compagni entro le mura del castello sono ormai allo stremo.
Il nemico attacca. Il 15 aprile il castello di Hara è circondato dal fuoco. 6.000 ribelli preferiscono perire tra le fiamme piuttosto che arrendersi, molti gettano i propri bambini nel fuoco per evitare loro la cattura e la morte dopo orrende torture. Le forze governative sfondano le ultime disperate difese, entrano nella fortezza massacrando chiunque. Pochi riescono a fuggire, ma vengono presto catturati ed uccisi. Masuda Shirô viene decapitato e la sua testa inviata a Nagasaki ed esposta come monito.
La ferocia dell’assalto finale è ben evidenziata dalle teste di 10.800 ribelli mozzate nei due giorni finali di lotta e disposte nei campi sotto le pareti del castello. La fortezza viene distrutta e i territori di Shimabara e Amakusa divisi tra vari daimyô.
La chiusura del Giappone all’Occidente
I governatori e i daimyô attribuiscono al fervore religioso cristiano la colpa della ribellione per sviare l’attenzione dal proprio dispotismo e non perdere il favore di Iemitsu. I portoghesi, sospettati di connivenza nella sollevazione di Shimabara, vengono banditi. Un nuovo editto proibisce a chiunque, ancorché ambasciatore, l’ingresso in Giappone. Gli olandesi conservano il diritto di trafficare, ma ridotti a pochi uomini ghettizzati nell’isolotto di Deshima. I soli che possono commerciare in città sono i cinesi. Iemitsu chiude il Giappone all’Occidente, rinunciando all’apporto che avrebbe potuto ricavarne ed obbligando la nazione a ripiegare su se stessa e a svilupparsi esclusivamente sulla base della cultura locale.
Tuttavia la gemma del Cristianesimo non appassisce: silenziosa, resiste due secoli senza vescovi, sacerdoti, missionari, chiese e liturgie ad alimentarla, fino a rifiorire nel XIX secolo allorché verranno aboliti i decreti restrittivi.
L’isolamento del Giappone dura fino a metà Ottocento allorché il commodoro americano Matthew Perry entra nella baia di Tokyo con quattro navi e obbliga il Giappone ad aprire un certo numero di porti per il commercio. Per quel che riguarda la religione cristiana, già nel 1844 il padre Forcade delle Missioni Estere di Parigi era sbarcato da una nave a Naha, nelle isole Ryûkyû, e vi si era stabilito con il pretesto di imparare la lingua per fungere da traduttore per il comandante della flotta.
La ripresa dei contatti e la grande scoperta
Dopo il trattato franco-giapponese del 1859 i sacerdoti delle Missioni Estere cominciano a godere di maggiore libertà anche se, con le leggi anticristiane ancora vigenti, il loro apostolato può svolgersi solo fra gli europei che vivono nei porti.
Quattro anni più tardi, i missionari si stabiliscono nell’antico centro cristiano di Nagasaki e qui edificano una chiesa dedicata ai martiri canonizzati l’anno precedente. È in questa chiesa che il Venerdì Santo del 1865 un gruppetto di giapponesi si presenterà al missionario p. Bernard de Petitjean rivelandogli che altri cristiani, suppergiù 10.000, vivono sparsi in venticinque villaggi dell’isola di Goto e nella valle di Urakami, sono i kakure kirishitan (cristiani nascosti).
Riparte l’attività missionaria
La Costituzione del 1889 abolisce le leggi contro i cristiani e concede la libertà religiosa. L’opera dei missionari riparte: nel 1879 erano solo in tredici ma nel 1895 sono già ottantotto, affiancati da una ventina di missionari locali. I cattolici sono circa 50.000. I primi sacerdoti giapponesi vengono ordinati nel 1882 e nel 1891 Leone XIII stabilisce la gerarchia episcopale.
Dopo la sconfitta bellica del 1945, giungono nel Paese centinaia di missionari stranieri speranzosi che il Giappone fosse pronto ad accettare il Cristianesimo a causa del profondo vuoto lasciato dalla sconfitta del sistema imperiale shintoista. La maggior parte della gente, però, vede ancora il Cattolicesimo come qualcosa che “puzza di burro”, cioè sgradevolmente occidentale.
Le cose migliorano sullo scorcio degli Anni Cinquanta e il dialogo si sviluppa soprattutto in campo letterario con scrittori che riescono a veicolare il Cristianesimo in modo propositivo e allettante.
Attualmente la Chiesa è presente nelle scuole cattoliche e nel settore sociale: i cattolici gestiscono nidi d’infanzia, case per anziani, centri d’accoglienza per senzatetto e altri servizi, soprattutto nelle zone abbandonate delle periferie metropolitane.
I cattolici in Giappone sono oggi circa mezzo milione su una popolazione di 126 milioni. Chi non è abituato ai ritmi delle culture asiatiche potrebbe scoraggiarsi, ma i missionari proseguono da secoli la loro opera nella scuola, nei mass-media, nel servizio ai poveri, nel dialogo interreligioso e i giapponesi, anche quelli non cristiani, giudicano la religione di Gesù “positiva, ottimista, nobile, consolatrice, degna”.
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