Il Sud ha pagato i buchi di bilancio del Nord
Checché ne dicano i «Padani», storicamente è stato il Sud a doversi accollare i debiti del Nord. La dimostrazione - dati contabili alla mano - fu data alle stampe già nel 1862. Si tratta della ficcante analisi del barone Giacomo Savarese, intitolata «Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860» ed oggi ripubblicata dalla casa editrice partenopea «Controcorrente».

Si scopre così che, nel 1860, le casse dei piemontesi erano ben vuote, se paragonate a quelle del Regno delle Due Sicilie. Tre guerre in 10 anni pesavano sui bilanci cavouriani. Eppoi lo Stato Sabaudo aveva un sistema monetario che era un mezzo bluff. Essendo basato sulla carta moneta, ad ogni banconota messa in circolazione dalla Banca nazionale degli Stati Sardi, doveva corrispondere un equivalente valore in oro o in argento. Invece, il metallo pregiato era stato speso (in armamenti) e per la valuta c’era un problema di «convertibilità».

Il Regno delle Due Sicilie emetteva soltanto monete d’oro e d’argento (oltre alle polizze notate e alle fedi di credito, il cui esatto controvalore era versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie). Quindi, un soldino meridionale valeva già di per sè, essendo di metallo prezioso, mentre la valuta piemontese era carta e, in parte, carta straccia.
La ricca «dote» dei Meridionali servì a coprire i «buchi» della neonata Italia mentre il «vizietto» di stampare banconote senza copertura continuò a essere tollerato fino a quando, nel 1892, esplose un tale scandalo che il capo del Governo, Giovanni Giolitti, dovette rassegnare le dimissioni.

Ma torniamo ai debiti del Nord pagati dalla gente del Sud. Dati alla mano, Savarese sostiene che nel 1860 non c’era manco un «buco» nel bilancio del Regno di Napoli. Anzi, quell’anno era previsto un avanzo di quasi 314 mila ducati (circa 680mila euro attuali) che sarebbero stati destinati «ad opere per il porto di Brindisi, aiuti ai censuari del tavoliere delle Puglie, a bonifiche del bacino del Volturno».

Inoltre, i piemontesi avevano il «debito facile»: tra il 1848 e il 1859, il Regno del Sud aveva emesso titoli che costavano annualmente all’erario 5 milioni e 210.731 lire e 98 centesimi; mentre quello del Nord ne aveva per 58 milioni 611mila 470 lire e 3 centesimi. Quindi ogni cittadino del Mezzogiorno era gravato da un onere annuo di circa 55 centesimi per pagare gli interessi per i debiti dello Stato, mentre ogni abitante del Nord doveva pagare per lo stesso scopo 11,7 lire. Ogni piemontese pagava venti volte di più.

Con l’Unità d’Italia, il mastodontico debito pubblico dei Settentrionali si sommò al risibile debito pubblico duosiciliano e ai Meridionali toccò farvi fronte sotto forma di nuove tasse.

A proposito d’imposte e gabelle, grazie al barone Savarese (che era stato anche ministro sotto Francesco II) c’è la prova che, storicamente, sono stati i governanti del Nord i più propensi a spremere i contribuenti. Infatti, pare che, tra il 1848 e il 1861, Napoli non impose alcuna nuova tassa; Torino, invece, alle vecchie ne sommò 22 nuove.
Secondo Savarese l’errore di base era nei principi economici dei piemontesi che, a botte di tasse e debito pubblico, deprimevano l’economia. Invece, secondo lui «le risorse finanziarie dello Stato non bisogna cercarle né nel debito, né nei nuovi tributi, ma esclusivamente nell’ordine e nella economia. Perché veramente il miglior governo è quello che costa meno».

Parole (sante) d’un alto funzionario del Sud, barone e borbonico, di cui nessuno ha sentito parlare per quasi 150 anni.
MARISA INGROSSO