Il vero Che Guevara

(di Francesco Agnoli su Radici Cristiane n. 39)

Il mito del Che è costante, non passa mai di moda presso i ragazzi, gonfiato ad arte da chi vuole “educare” le giovani generazioni ad una prospettiva alternativa e antisistema. Nella cinematografia, invece, questo mito ritorna ogni tanto…ma ritorna.

Dopo El Che Guevara (scritto da Adriano Bolzoni, diretto da Paolo Heusch e interpretato da Francisco Rabal), dopo Che! (diretto da Richard Fleischer e interpretato da Omar Sharif), dopo Diari della motocicletta (di Walter Salles, con Gael Garcia Barnal), adesso esce Che (di Steven Soderbergh e interpretato da Benicio Del Toro). Film, quest’ultimo, presentato al recente Festival di Cannes.

Alla domanda di un giornalista su quale fosse la sua opinione sul Che, il regista Soderbergh ha risposto: «Le sue idee hanno superato frontiere politiche e barriere culturali. Guevara non aveva bisogno di un film per elogiarlo o demolirlo. Ero io ad avere bisogno di una grande storia da raccontare» (Il Giornale, 23/5/2008) Francesco Gallo, inviato ANSA a Cannes, così recensisce il film: «Va bene che si toccava un’icona come Che Guevara e che bisognava far bene, Ma Steven Soderbergh con il suo “Che” si è inoltrato troppo sulla strada del santino, dell’agiografia. E alla fine di quattro ore e mezzo della proiezione qualcuno, che era stato così coraggioso da rischiare fame e disidratazione, avrebbe voluto, anche solo per proiettare il suo disagio, conoscere almeno un difetto del rivoluzionario argentino. Ma niente. (…). A pensarci bene un momento di rabbia il protagonista l’ha avuto, ma a farne le spese è stato solo un povero cavallo che ad un certo punto colpisce con una pietra».

Un film come questo tende solo a confermare una falsa mitologia su un personaggio che non merita alcuna rappresentazione oleografica, ma anche semplicemente descrittiva senza giudizi di sorta.
Diciamo la verità

Chi fu davvero Ernesto Che Guevara? Viene presentato come una sorta di cavaliere senza macchia e senza paura, come un liberatore amante della giustizia e dell’uomo, una sorta di santo laico. Tutto falso.

Quando a qualche studente mi capita di raccontare che Che Guevara disse una volta al comunista italiano Pietro Ingrao: «Se un venezuelano mi chiedesse oggi un consiglio, gli risponderei così: “quello che dovete fare è cominciare a sparare alla testa e ammazzare tutti i borghesi dai quindici anni in su”», ebbene, quel giovane mi guarda quasi sempre stupito come se gli raccontassi la più grande delle assurdità. Eppure è così.

Procediamo con ordine. Che Guevara si distinse più volte per la durezza dei metodi. Anzi, polemizzava con chi decideva di essere per lui troppo “morbido”. Arrivò a definire lo stesso Fidel Castro come “leader radicale della borghesia di sinistra”, perché a suo dire era troppo “sensibile” a inutili calcoli politici.

Che Guevara si distinse sempre per il suo favore a processi che non dovevano andare per le lunghe, meglio se sommari. Sempre ai ribelli venezuelani una volta disse di non aspettare verdetti e indagini ma di “prendere un fucile e sparare su ogni imperialista”.
Nella Rivoluzione cubana, durante l’avanzata del 1957, si distinse per l’efferatezza con la quale interpretò il suo modo di essere rivoluzionario e di liquidare nemici e presunti traditori. Famoso è il caso di Eutimio Guerra, un guerrigliero che venne accusato di collusione con il nemico, cioè con l’esercito di Fulgencio Batista, l’allora dittatore di Cuba. Guerra venne immediatamente deferito ad un’improvvisata corte marziale. Che Guevara, malgrado i tempi già rapidi, ne anticipò il verdetto.

Raccontò successivamente un suo commilitone: “Io avevo un fucile e in quel momento il Che tira fuori una pistola calibro 22 e pac, gli pianta una pallottola qui. Che hai fatto? Lo hai ucciso. Eutimio cadde a pancia in su, boccheggiando”.
Aguzzino e sanguinario

Nell’anno della “liberazione” di Cuba, il 1959, Che Guevara venne convocato da Castro e il 7 settembre ricevette l’incarico provvisorio di procuratore militare. Fu il convulso periodo che segue ogni cambiamento di regime, fu la caccia agli sconfitti, l’epurazione degli avversari.

Anche in questo periodo Che Guevara si distinse per la durezza. Si aprì a Cuba il primo “Campo di lavoro correzionale” (cioè di lavoro forzato), e fu proprio Che Guevara a disporlo preventivamente e a organizzarlo nella penisola di Guanaha. Poi lui stesso ne istituì altri: ad Arco Iris, a Nueva Vida e a Palos. Gli ultimi due destinati addirittura ai bambini sotto i dieci anni, figli degli oppositori politici, che, in quel Campo, sarebbero dovuti essere educati ai principi della “pace”, della “libertà” e della “tolleranza”.

381 prigionieri, che si erano arresi alle truppe di Castro sull’Escambray, furono incarcerati a Loma de los Coches e tutti fucilati. Che Guevara rifiutò categoricamente la grazia a Humberto Sorì Marin per il quale aveva chiesto misericordia la madre in persona.
Fu proprio Che Guevara a volere la famosa DSE (il Dipartimento della Sicurezza dello Stato) e fu lui a decidere le punizioni corporali a cui dovevano essere sottoposti i dissidenti pericolosi: salire le scale delle prigioni con scarpe zavorrate di piombo, tagliare l’erba con i denti, essere impiegati nudi nei lavori agricoli, essere immersi nei pozzi neri.
Un vero marxista

E naturalmente, da buon marxista, Che Guevara se la prese anche con la Chiesa. Pascal Fontaine, nel suo libro America Latina alla prova, calcola che a Cuba 121 sacerdoti persero la vita fino al 1961, cioè nel periodo in cui proprio Che Guevara era il massimo artefice del sistema segregazionista del regime.

Per concludere, proprio di Che Guevara furono queste parole: “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini perché questo rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere”.

Non c’è da stupirsene, se è vero (come è vero) che già Lenin (che spesso viene presentato come il volto ancora pacifico del comunismo) aveva affermato: «La dittatura del proletariato è un dominio non limitato dalla legge, si regge sulla violenza».

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