La Napoli “ispanica”
Luigi Vinciguerra
Napoli non fu un regno “subordinato” a quello spagnolo, tutt’altro: ha sempre mantenuto una propria autonomia e indipendenza, tanto care alla popolazione. Immaginare Napoli di second’ordine è solo una “leggenda nera”, priva però di riscontri nei fatti e nella Storia. Ecco come smontarla…
La Napoli “spagnola” (ma sarebbe più corretto definirla “ispanica” o addirittura – almeno dall’avvento di Carlo V – “imperiale”) nasce ufficialmente all’inizio del 1504. Il 31 gennaio, infatti, l’armistizio di Lione, dopo le battaglie di Cerignola e del Garigliano (28 aprile e 29 dicembre dell’anno precedente), mantenne l’unità del Regno di Napoli, facendo decadere l’accordo di spartizione tra Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico (il trattato segreto di Granata del 1500 prevedeva che al primo andassero Abruzzi e Campania; al secondo Puglia, Basilicata e Calabria). I territori regnicoli, uniti dall’XI secolo, seguirono così un più naturale passaggio al Re spagnolo, legittimo erede dell’aragonese Ferrandino (1469-1496), morto senza eredi.
Rex Utriusque Siciliae
L’eroe della conquista ispanica, che liberò il Regno dalle truppe francesi occupanti, che la pretendevano in virtù della discendenza di Luigi XII dagli Angioini, fu Gonzalo di Cordova detto il Gran Capitano, uno dei maggiori guerrieri del tempo. Questi fu premiato con il titolo di «viceré» (in precedenza, c’erano stati due viceré per conto di Luigi di Francia) e da ciò nacque una prima “leggenda nera”: quella per cui Napoli sarebbe stato un regno “subordinato”, di second’ordine.
In realtà la struttura politica e giuridica del Regno di Napoli rimase inalterata rispetto al passato: semplicemente, il Re di Napoli era anche il Re di Castiglia (e di Sicilia, di Sardegna, di Aragona, del Perù, del Portogallo e Algarve, Duca di Milano, delle Fiandre, di Borgogna, eccetera…). Anzi, ci fu il caso di Filippo il Prudente (1527-1598), “il più grande dei Re”, che fu Re di Napoli (come Filippo I) già dal 1554, mentre divenne Re di Spagna (come Filippo II) e di Sicilia solo due anni dopo.
Il che significa anche che il Regno di Napoli, dalla propria nascita e fino al Congresso di Vienna (1815), fu separato da quello di Sicilia, pur condividendo – tranne che nei due periodi “francesi”, quello angioino e quello napoleonide – lo stesso Re (non a caso, a causa delle dinastie diverse, Ferdinando di Borbone risultava essere IV di Napoli e III di Sicilia) e la locuzione Rex Utriusque Siciliae non era altro che una mera “espressione geografica” (come ce ne sono state altre nel corso dei secoli).
“Viva il Re, muoia il malgoverno”
Al di là dei Re e della loro numerazione, infatti, la struttura e l’indipendenza di un Regno si basa sul rispetto delle proprie leggi tradizionali e quelle leggi che governavano Napoli appunto caratteristiche di quel Regno, quindi diverse da quelle siciliane o milanesi (ed anche da quelle catalane o castigliane), e si erano formate nel corso dei secoli partendo dalla consuetudine concreta e non imposte astrattamente dall’alto. Ecco perché, nel 1647, Masaniello insorse non contro il governo “spagnolo”, bensì contro il malgoverno che imponeva nuove gabelle in spregio degli accordi passati.
Del resto, lo stesso grido che caratterizzò la rivolta, “Viva il Re, muoia il malgoverno”, qualifica immediatamente il moto come insurrezionale e non certo rivoluzionario: è vero che esistevano persone (Giulio Genoino in primis) interessate a rovesciare la Monarchia per instaurare una repubblica o per gettarsi tra le braccia dello straniero francese, come peraltro avverrà un secolo e mezzo dopo; ma la richiesta di Masaniello era appunto quella di rispettare i privilegi, cioè le leggi particolari (privatae leges) del Regno, che nella fattispecie prevedevano esenzioni particolari nel campo delle imposte. È quindi errato definire “antispagnola” una rivolta che afferma “Viva il Re” e pretende il rispetto delle leggi di Carlo d’Asburgo e di Alfonso d’Aragona…
Purtroppo la difficoltà di muoversi all’epoca impedì che i Re di Napoli potessero, se non risiedere, almeno visitare anche la sola loro capitale (una sorte peraltro condivisa pure dalla maggior parte delle principali città spagnole): la mancanza della presenza fisica del Re ha fatto sì che da un lato la popolazione si affezionasse particolarmente alla dinastia Borbone, quasi cancellando la memoria della grandezza passata, ritenendosi maggiormente soddisfatta dall’essere un piccolo Regno che vedeva però la presenza costante del Monarca; dall’altro ha alimentato la “leggenda nera” di un Re disinteressato e lontano, pronto solo a spremere i propri sudditi gravandoli di tasse.
Le istituzioni del Regno
La verità storica invece dimostra come, fino all’avvento dei Napoleonidi che ne stravolsero l’impianto legislativo, il Regno di Napoli fosse costantemente seguito dal Re, attraverso il Consiglio d’Italia e i Viceré; e, come ciò nonostante, rimanesse completamente autonomo dal punto di vista legislativo, con le proprie istituzioni, i propri parlamenti, le proprie leggi. Sarà il “liberatore” Bonaparte a cancellare gli antichi statuti e ad imporre, con il Codice Napoleone, una legislazione del tutto estranea alle consuetudini del Regno.
Le principali istituzioni del Regno, cioè gli organi amministrativi più importanti, avevano sede a Napoli ed erano: il Consiglio Collaterale, simile al Consiglio d’Aragona, organo supremo nell’esercizio delle funzioni giuridiche (composto dal viceré e da tre giureconsulti, con funzioni di cancelleria, amministrative e legislative – queste ultime esercitate attraverso le prammatiche insieme con il viceré); la Camera della Sommaria (di origine angioina, antecedente della Corte dei Conti, che controllava le “somme”, cioè appunto i conti del regio tesoro, dei ricevitori provinciali e di tutti gli altri funzionari ai quali era affidato denaro pubblico, i rendiconti dei pubblici amministratori, i conti relativi alle imposizioni fiscali delle universitates, che tutelava dagli eventuali abusi dei baroni e dei governatori); il Tribunale della Vicaria (di origine angioina, prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili) e il Tribunale del Sacro Regio Consiglio (inizialmente, cioè al tempo degli Aragonesi, con funzioni consultive di governo; quindi tribunale di appello della Camera della Sommaria; infine, corte suprema del Regno e unica competente per le liti inerenti ai feudi e ai feudatari, sia di carattere civile che penale).
In tutte le città, inoltre, erano presenti i Sedili o Piazze, rappresentanza dei corpi intermedi (in particolar modo della nobiltà) radicata in ogni universitas.
L’armonia delle Corone
Tali istituzioni variarono le proprie competenze nel corso dei decenni, ma sostanzialmente vennero mantenute le funzioni che avevano al momento della loro nascita, a maggior riprova del rispetto che gli Asburgo avevano nei confronti dei nuovi Regni (e lo stesso accadeva in Sicilia, in Sardegna, nel Milanesado, etc.). Anzi, quando Tommaso Campanella si rivolse a Filippo III proponendogli di “castiglianizzare” tutto l’impero, imponendo la lingua spagnola a tutte le popolazioni, la proposta cadde nel vuoto, perché l’intento imperiale era quello di armonizzare le varie Corone, non certo di omologarle o assoggettarle a quella di Madrid (o di Valladolid).
Il caso più eclatante del rifiuto della “castiglianizzazione” fu costituito dal rifiuto di accettare nel Regno l’Inquisizione spagnola: il 12 maggio 1547, alla notizia di tale introduzione, un popolano (che curiosamente si chiamava Tommaso Aniello o Agnello, da Sorrento, similmente all’Amalfitano che sarebbe stato protagonista dei moti di esattamente cento anni dopo) che, al grido, anch’esso simile a quello del secolo successivo, “Viva l’Imperatore e muora l’Inquisizione”, strappò l’editto, affisso al portone del duomo, spingendo popolo e nobili alla sollevazione, culminata in scontri con i soldati, per impedire – in quanto considerata un abuso – che avesse luogo la decisione che il viceré Toledo, in accordo con l’Imperatore, aveva preso per arginare la diffusione del protestantesimo.
Non certo per simpatia nei confronti dell’eresia, bensì per difesa delle secolari prerogative regnicole. Così nel Regno di Napoli non si impiantarono né l’Inquisizione romana né l’Inquisizione spagnola (che operò invece nei regni di Sicilia e di Sardegna) ed il potere inquisitoriale rimase – secondo la tradizione – in mano ai vescovi e ai tribunali diocesani.
Pur nella sua autonomia, il fatto che il Regno fosse inserito nell’Impero portò numerosi Napolitani a ricoprire importanti incarichi a Madrid, nel Milanesado, nelle Americhe, nelle Filippine, nelle Fiandre; troviamo Napolitani al comando di truppe nella lotta contro il protestantesimo nei Paesi Bassi e contro il pericolo islamico nel Mediterraneo, distinguendosi nell’assedio di Malta e nella battaglia di Lepanto.
La fortuna di Napoli andò quindi di pari passo con quella del resto delle Spagne, almeno fino al tempo di Carlo II (V per i Napolitani), godendo di straordinaria ricchezza e sviluppo nel Cinquecento e subendo una flessione nel Seicento dovuta alla crisi economica ed al peso delle guerre che le Spagne sostenevano non per espansione, bensì per difendere la religione (va ricordato che erano state le Fiandre ad essersi ribellate alla Corona e ad aver abbandonato il Cattolicesimo, non certo la Spagna ad averle invase, avendo l’Imperatore Carlo V ereditato quelle terre dalla nonna paterna Maria di Borgogna).
La congiura di Macchia
Con la morte senza discendenza di Carlo II si aprì una divisione: si formò una sorta di partito che si oppose – giudicandolo un falso – al testamento del sovrano, che designava erede delle corone spagnole e napoletana il nipote di Luigi XIV di Francia, Filippo V di Borbone, sostenendo come legittimo successore l’arciduca Carlo d’Asburgo (poi imperatore con il nome di Carlo VI). Tale dissidio politico portò il partito napoletano filo-austriaco ad un’esplicita presa di posizione “antispagnola” (in realtà anti-francese e anti-Borbone), seguita da una fallita rivolta (la congiura di Macchia). Dopo la crisi politica il governo spagnolo tentò con la repressione di riportare l’ordine nel Regno, mentre la crisi finanziaria era sempre più disastrosa.
Le vicende del Settecento sono note: nel 1701 Filippo V visitò Napoli; nel 1706 avvenne l’occupazione militare austriaca; nel 1713 il trattato di Utrecht cedeva a Carlo VI d’Asburgo il Regno di Napoli (e quello di Sardegna), affidando la Sicilia ai Savoia. Il periodo austriaco, culturalmente molto vivo ancorché contraddittorio (del 1721 è la Istoria civile del Regno di Napoli di Pietro Giannone; del 1725 i Principi di una scienza nuova di Vico), si chiuse nel 1734: il 10 maggio Carlo di Borbone fece il suo ingresso a Napoli città ed il 25 maggio sconfisse gli Austriaci a Bitonto. Uno dei suoi primi atti (8 giugno 1735) fu la soppressione del Consiglio Collaterale, sostituito dalla Real Camera di Santa Chiara, primo passo di una politica che puntava verso l’assolutismo.
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