Appartenente ad un’antica famiglia di Lucera (FG), Francesco Maurizio Di Giovine è un appassionato studioso della storia delle Due Sicilie.
Redattore della rivista L’Alfiere, da anni conduce un’ampia opera di consulenza e di divulgazione su temi della storia preunitaria, tenendo conferenze in tutta Italia.
Ha collaborato con i quotidiani Il Giornale di Napoli e Il Giornale del sud. Per l’Editoriale Il Giglio ha curato il saggio introduttivo su Giacinto de’ Sivo, in La Tragicommedia ed ha scritto a più mani La difesa del Regno.
Il Regno delle Due Sicilie era un regno Italiano: italiano il suo principe, italiano il suo esercito, regno che nel 1848 aveva respinta ogni invasione straniera, anche a titolo di aiuto, e che aveva mostrato col fatto nel 1859 di non parteggiare con i nemici della nazionalità italiana, anzi di concorrere a quella dopo la guerra con lo sborso di tre milioni. Per giunta poi le libere istituzioni che quivi si richiamarono, e la domanda di una lega col Piemonte, nella quale non vi fu condizione strana che non fosse accettata; quale sostegno, quale aiuto non era per l’acquisto della nazionalità, e della completa indipendenza della nostra sempre infelice Italia? Poteva esservi ragione di combattere un regno di tal natura ed in tali condizioni? Eppure il partito della rivoluzione la fermò. Appigliandosi senza discussione a timori effimeri ed esagerati, ricorse alla diffidenza assoluta e, respingendo con i mezzi che tutti sanno ogni conciliazione, una guerra fu decisa, fu iniziata e proseguita contro a questo più gran regno d’Italia in nome dell’Italia; una guerra, che ad onta di tutte le belle tergiversazioni dei giornalisti, non potrà avere nell’istoria altro titolo che quello di guerra fratricida.
Per questa guerra 100mila italiani sono caduti sul suolo «che lo straniero ha contato con gioia crudele», cento città manomesse, le finanze dilapidate, rovinati gl’interessi pubblici e privati, anarchia, persecuzioni, ire e vendette. Tante rovine e tante stragi sono sempre poca cosa per la salvezza di una Patria, per la indipendenza e la nazionalità di un popolo che risorge. Ma è pur vero che queste stragi, queste rovine, questi danni salvarono la Patria? Erano essi questi mali (gravi senza dubbio) sì necessari e sì utili da corrervi incontro a chiusi occhi e con tanto entusiasmo? Ma in che concorrono oggi all’acquisto della nazionalità e della indipendenza? Qual valore hanno questi mali, quali vantaggi offrono maggiori e più di quelli che dava la lega offerta dal Borbone e ricusata dal Piemonte?
Ecco lettori il presente dopo il passato. Ecco il nodo gordiano, a districare il quale si confonde alla fine il partito, ed esita troppo tardi dubbioso il governo, ed i suoi Ministeri che si succedono, posti fra un’epoca di furore che è trascorsa e fra un’epoca di decisione e di giudizio che si avanza.
Vengano ora gl’Italianissimi ed i politiconi, ed invece di cianciare e seminar discordie col dar del patriottico o dal reazionario a questi o a colui; invece di calunniare or questo or quel ceto di concittadini, che pur son tutti fratelli; invece di far continue diatribe contro al governo ed ai ministeri sopra pettegolezzi di minuta amministrazione; vengano diciamo, a dar consigli e a dirne come oggi si debba fare per legittimare una invasione ed una guerra così disastrosa. Ci dicano come si possano trarre i tanto decantati vantaggi dalla presente distruzione! Come dalla guerra civile possa sorgere l’amor nazionale! Come della persecuzione possa venirne la fratellanza! Dalle ire e dalle violenze la concordia, la unione e la forza! Come, infine, le stragi, le rovine, lo sperpero, i danni possano essere i grandi mezzi per l’acquisto di quella tale nazionalità ed indipendenza in nome della quale si operarono!
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