Juan Donoso Cortés - La vita, le opere (Cap III / a)
di Rino Cammilleri
(tesi di laurea - volume inedito)
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CAPITOLO III
1. La conversione.
Il titolo del paragrafo non deve trarre in inganno: la conversione ‘anima et corpore’ di Donoso Cortés ai principi cattolici non è cosa repentina, bensì frutto di una lunga e sofferta evoluzione, di un doloroso cammino alla ricerca della verità prematuramente iniziato e fatto di illusioni e delusioni, di studio e di riflessione, di osservazione e di meditazione. La rivoluzione del 1848 avrà indubbiamente un'influenza considerevole sul mutamento di rotta di Donoso (1), ma "peccherebbe di superficialità chi, nel caso di Donoso, ammettesse una conversione prodotta dal panico o una brusca virata" (2).
II cattolico sa che una conversione non è un fatto naturale, bensì soprannaturale; gli accadimenti contingenti hanno naturalmente la loro importanza, ma solo in quanto predispongono l'animo al cambiamento.
Il 21 luglio 1849 così Donoso Cortés scriverà al marchese Blanche-Raffin, il traduttore del "Discurso sobre la dictadura': "Nell’intimo della mia anima io sono sempre stato credente; ma la mia fede era sterile, perché né governava i miei pensieri, né ispirava i miei discorsi, né guidava le mie azioni. Credo, tuttavia, che se al tempo in cui ero maggiormente lontano da Dio mi avessero detto: - Abiura il cattolicesimo, o soffrirai grandi tormenti -, mi sarei rassegnato ai tormenti, per non rinnegare il cattolicesimo. Tra questo stato d’animo e la mia condotta c'era, senza alcun dubbio, una mostruosa contraddizione".
"Due cose mi hanno salvato: il sentimento squisito che ebbi sempre della bellezza morale e una sensibilità di cuore che rasenta quasi la debolezza; il primo doveva farmi, ammirare il cattolicesimo, la seconda doveva farmelo amare con il tempo" (3). Due fatti soprattutto colpiscono Donoso: la morte del fratello Pedro e l’incontro a Parigi con un misterioso personaggio di cui mai Donoso vorrà fare il nome. Nella primavera del 1847, come abbiamo visto, Donoso Cortés era a Parigi, ancora una volta al seguito di Maria Cristina.
Qui al principio di giugno riceveva la notizia della grave malattia del fratello (4). Donoso si precipitava immediatamente al suo capezzale, ma Pedro moriva lo stesso mese. Seguiamo ancora la lettera a Blanche-Raffin: "Ma Dio mi aveva preparato un altro strumento di conversione più efficace e potente. Ebbi un fratello che vidi vivere e morire, e che visse da angelo e morì come morirebbero gli angeli se fossero mortali. Da allora giurai di amare e adorare, e amo e adoro… - stavo per dire ciò che non posso dire, lo stavo per dire con tenerezza infinita - il Dio di mio fratello", "II mistero della mia conversione (perché ogni conversione è un mistero) è un mistero di tenerezza. Non lo amavo, e Dio ha voluto che lo amassi, ed io lo amo! E poiché lo amo, sono convertito" (5).
L'altro fatto che commuove profondamente Donoso è l'amicizia con l'uomo che la maggior parte dei biografi di Donoso identificano con Santiago de Masarnau (6). Il nome di costui verrà rivelato solo una volta da Donoso, due mesi prima della sua morte, a Bois-le-Comte, in casa di M.me Swetchine (7). Una frase, soprattutto, di Masarnau impressiona Donoso. Avendogli questi chiesto come mai la sua onestà gli sembrasse inferiore a quella del musicista, questo ultimo rispose: "E’ vero! E a che cosa si deve? Al fatto che io sono rimasto cristiano, mentre voi non lo siete già più" (8).
Il significato della frase gli verrà spiegato dal fratello, uomo profondamente cattolico, in punto di morte. Così narra Donoso l'episodio a Raffin: "Durante il mio soggiorno a Parigi fui molto intimo di M….(9), e quell'uomo mi soggiogò con il solo spettacolo della sua vita, che avevo sempre cavanti agli occhi. Io avevo conosciuto uomini onorati e buoni, (…); e tuttavia, tra la bontà e l'onorabilità degli uni e la bontà e l'onorabilità dell'altro, trovavo una distanza immensa; e la differenza non stava nel differente grado di onorabilità, ma nel genere completamente diverso di onorabilità. Pensandoci su, finii per convincermi che la differenza consisteva nel fatto che la prima era onorabilità naturale, e l'altra soprannaturale e cristiana" (10).
"E' veramente singolare che una modesta figura come quella del musicista (...) abbia potuto esercitare un simile influsso su una personalità forte come quella di Donoeo Cortés; (…). Perché d'altronde tanta riservatezza di Donoso, al punto da autorizzare supposizioni che, tutto sommato, restano arbitrarie?" (11). Non lo sappiamo, ma del resto "ogni conversione è un mistero''.
La morte del fratello e l'incontro con Masarnau sono indubbiamente fatti decisivi per quanto riguarda la conversione di Donoso. Occorre però aggiungere che questi fatti trovano un terreno reso già fertile dalla tenera e filiale devozione che sempre aveva conservato nei confronti della Vergine (12) e da una non comune morigeratezza di costumi, integrità morale che aveva mantenuto anche dopo l'abbandono delle convinzioni religiose, dovuto alla lettura delle opere francesi. Così ne parla lo stesso Donoso a Bois-le-Comte: ''(…la lecture des ouvrages francaises qui avait suivi celle des auteurs latins, m’avait fait perdre les convinctions chrétiennes. Cependant, j'avais veillé sur moi avec severitè, j'avais conservé dea moeurs pures" (13).
Da questo momento in poi Donoso Cortés lavorerà indefessamente per estrarre la verità politica e sociale dai principi del Cattolicesimo. I sei anni di vita che gli restano sono quelli del Donoso Cortés dello "Ensayo", dei discorsi di risonanza europea, l'uomo cui Napoleone III, Metternich, il Re di Prussia, il Papa chiederanno consiglio, l’uomo che susciterà l'ammirazione di Ranke, di Schelling e dello stesso Bismarck.
2. Il ‘48.
Il 4 ottobre 1847 Narvaez entra sciabola alla mano nella sala del Coniglio dei Ministri, rilevando d'imperio questi ultimi dalle loro funzioni. E’ un caso, unico nella storia, di colpo di Stato compiuto da un uomo solo (14), anche se, va detto, il "cervello" era stato Donoso Cortés. Si apre il "grande Ministero Narvaez", caratterizzato da un periodo di relativa tranquillità (15). E' l’ora dei moderati, l’élite tecnico-politica, nuova formula del dispotismo illuminato classico.
Un mese prima Donoso aveva avuto un ultimo sussulto di "liberalume", per dirla alla Taparelli. Si tratta di quattro articoli pubblicati su "El Paro" e riguardanti le riforme che Pio IX aveva cominciato a concedere negli Stati Pontifici (16). E’ un tentativo di difesa abbastanza impacciato, rivelatore di un Donoso che ormai non ha quasi più nulla da spartire con il liberalismo. La speranza, mai sopita, di "realizzare l’indissolubile consorzio della libertà e dell'ordine" (17) gli fa vedere in Pio IX colui che porterà a compimento la grandiosa opera.
Molto più interessante è invece per noi l'identificazione, negli articoli di Donoso, della civiltà occidentale con la Chiesa Cattolica, che d'ora in poi sarà il perno dell'interpretazione donosiana della Storia: ''La storia dell'Europa è la storia della civiltà? la storia della civiltà è la storia del cristianesimo? la storia del cristianesimo è la storia della Chiesa Cattolica, la storia della Chiesa Cattolica è la storia del Pontificato'' (18).
Il disprezzo per il razionalismo (19), che, ponendo in dubbio le verità rivelate, ha inabissato l'uomo nello scetticismo, padre di ogni errore, è ora a chiare lettere espresso. Donoso scopre adesso il concetto cattolico di libertà; Dio, dice, ha posto un limite alla Sua stessa potestà: la libertà dell'uomo (20). "Il cattolicesimo ha spazzato dal mondo tutte le schiavitù, e ha dato al mondo tutte le libertà; la libertà domestica, la libertà religiosa, la libertà politica e la libertà umana" (21).
La libertà cattolica è poi contrapposta alla libertà demagogica, "che venne al mondo in un giorno nefasto; che nacque dal deprecabile congiungimento e dalla perversa giustapposizione del filosofismo e della rivoluzione; (…) il cui giorno natalizio fu celebrato con lugubri e sanguinose ecatombi" (22). Di fronte a tutto questo si erge la Chiesa: "La democrazia vittoriosa l'accusò di essere assolutista, ella che aveva lanciato i suoi anatemi invincibili contro tutti i tiranni. La democrazia vittoriosa l'accusò di essere retrograda; ella che aveva allattato la libertà col suo fecondissimo petto" (23).
Nel suo 'excursus’ storico Donoso cita anche molte opere di scrittori protestanti e 'liberipensatori’, come Voltaire, Seckenberg, Leibniz, Von Toux, Robertson, Sismondi, Von Muller, Ancillon, Coquerel, Voigt (24). Ciò dimostra l'interesse col quale seguiva le questioni religiose, specialmente quelle che ponevano in relazione il politico ed il teologico (il titolo del primo capitolo dell’Ensayo sarà, appunto: "Come ogni grande questione politica dipende da una fondamentale questione teologica" (25).
Ma quando si accorge che l’Inghilterra (per lui eterna promotrice e tutrice di tutte le rivoluzioni) cerca di riallacciare i rapporti con la S. Sede (26), gli sorge il dubbio che il Papa corra il rischio di confondere le libertà cattoliche con la libertà rivoluzionaria. Sente quindi il dovere di mettere in guardia il Pontefice: "Per il popolo inglese ci sono due grandi razze nel mondo, (…): la razza umana o la razza inglese, abbietta la prima, nobilissima la seconda. Dio pose la razza umana nel possesso di tutti i continenti e di tutti i mari, e poi creò la razza inglese per porla nel possesso della razza umana''.
"Il popolo inglese è il simbolo dell'egoismo umano, posto in adorazione di se stesso ed elevato per mezzo dell’estasi alla sua ultima potenza, (…) dategli una formula o una interpretazione, anche se farisaica, che lo ponga in pace colla sua coscienza, e lo vedrete intentare le usurpazioni più obbrobriose e commettere i crimini più orrendi'' (27).
Il "cruciale" 1848 (28) ha le sue ripercussioni anche in Spagna, anche se i moti sono facilmente repressi da Narvàez. Chi soffiava sul fuoco a Madrid, Siviglia, Barcellona e Valencia, era, manco a dirlo, l’Inghilterra, secondo quanto da tempo andava inutilmente predicando Donoso, tant'è vero che il governo è costretto ad espellere Bulwer, scoperto a finanziare i rivoluzionari (29). I tre avvenimenti che più impressionano Donoso Cortés sono l’avvento della repubblica in Francia, la fuga del Papa a Gaeta e la caduta di Metternich, lo "Atlante'' che reggeva l'Austria "co' suoi omeri''. Scrive gli "Estudios sobre la Historia", opera 'ad usum Delphini' per Isabella II. C’è da dubitare col Suarez (30) che la Regina avesse il tempo di studiare la Storia, è quindi più probabile che Donoso li abbia scritti per non venire meno al suo ruolo di Cassandra (30) della politica spagnola.
Negli incompleti "Estudios" vediamo accentuarsi in Donoso la concezione provvidenzialistica della Storia: "Il caso, Signora, non esiste, né ad oscuri cospiratori è dato cambiare il sembiante del mondo e trasformare in un giorno le società umane" (32). E qui Donoso Cortés taglia ogni ponte con le correnti di pensiero della sua epoca: "Il Cattolicesimo che oggi da non so quali settarii oscuri e feroci è schernito e vilipeso a nome degli affamati, è appunto la religione di coloro che soffrono la fame. Il Cattolicesimo, oggi combattuto a nome dei proletarii, è la religione dei poverelli e dei bisognosi. Il Cattolicesimo combattuto a none della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità, è appunto la religione della libertà, della eguaglianza e della fratellanza umana" (33). L'influenza di S. Agostino e dei tradizionalisti francesi è evidentissima poi nelle considerazioni sull'origine della società e del linguaggio. La società, dice Donoso, è nell'ordine morale ciò che lo spazio è nell'ordine fisico. Essa è il luogo in cui fu posto l'uomo come essere intelligente e libero, è l'atmosfera propria della libertà e dell'intelligenza umana (34). Il supporre l'uomo intento a creare il linguaggio è cosa tanto assurda quanto il supporlo occupato ad inventare la società. Il razionalismo cade in un circolo vizioso, la creazione dell'uomo per mezzo dell'uomo (35). Avendo quindi la società origine con l'uomo in Dio, non è dato all'uomo di mutarne i fondamenti. L'ironia di Donoso si appunta su "quella teorica, famosa in altri tempi, secondo la quale la società sarebbe il risultamento di un contratto fatto al cospetto di Dio e fra le selve, da selvaggi sapientissimi nelle cose divine ed umane, fondatori di tutte le istituzioni religiose, politiche e sociali" (36); "questi medesimi selvaggi andavano pensierosi per i boschi pensando in quale maniera tradurre (…) in frase un gesto. Solamente ad un filosofo è concesso essere più ridicolo e assurdo di quei selvaggi" (37). Il titolo del capitolo VIII, infine, parla da solo: "Errore fondamentale della teoria della perfettibilità e del progresso indefinito" (38). Dove andrà a parare l'umanità con queste idee? Ecco: "(…) il Dio cattolico che in questa grande tragedia mondiale rappresenta la parte del tiranno, sarà fatto prigioniero, e l'antico dragone, oggi incatenato, salirà al potere illuminando l'orizzonte con il cangiante splendore delle sue squamme; il primo è il male vincitore del bene ne’ tempi del Paradiso terrestre; l'altro è il bene che prevarrà sul male ne' tempi socialisti" (39).
Nel gennaio del 1848 Donoso aveva pubblicato in due volumi una collezione scelta delle sue opere. Il successo raccolto gli vale l'elezione a presidente della sezione di Scienze Morali e Politiche nell'Ateneo di Madrid. L'Accademia della Lingua gli offre un seggio. II 16 aprile ha luogo la solenne cerimonia, presente Nàrvaez e tutta l'élite intellettuale ed aristocratica di Madrid. Per l'occasione Donoso legge il suo "Discurso sobre la Biblia", una delle cose più abbaglianti dell'oratoria spagnola dell'epoca. "La grandiosità delle sintesi, l'emozione lirica, l'espressività del linguaggio, fanno di esso uno dei modelli classici dalla fastosa oratoria del secolo XIX" (40). Come mai Donoso sceglie per argomento "La Biblia como fuente de inspiracion"? Facilmente si intuisce: in Dio e nella sua parola è la soluzione di tutto. Ma più importante è per noi la ''Advertencia" ai due volumi di ''Obras escogidas", pubblicati nel gennaio: "Deciso, d’altra parte, a seguire d'ora in poi nuovi sentieri negli studi sociali e politici, (l'A.) ha creduto che questa raccolta potesse servire a segnare contemporaneamente la fine di un’epoca importantissima della sua vita e l'inizio di un'altra che non lo sarà meno" (41).
3. Il "Discurso sobre la dictadura".
Il 15 novembre 1848 Pellegrino Rossi veniva assassinato a Roma e il 24 il Papa fuggiva a Gaeta. Il 30 novembre Donoso Cortés scriveva un articolo sui fatti di Roma ne ''El Heraldo''. Già nel 1831 Victor Hugo aveva sentito "il roco suono della rivoluzione", tuttavia lontano, nel fondo della terra, mentre estende, ''sotto ogni regno d'Europa, le sue gallerie sotterranee dal tunnel centrale della miniera che è Parigi" (42).
Ora la rivoluzione era esplosa e Donoso ne vedeva i tentacoli estendersi su tutto il vecchio continente; si scaglia contro di essa con tutta l'irruenza di cui un estremegno è capace: "La demagogia è una negazione assoluta, la negazione del governo nell'ordine politico, la negazione della famiglia nell'ordine domestico, la negazione dalla proprietà dell'ordine economico, la negazione di Dio nell'ordine religioso, la negazione del bene nell'ordine morale. La demagogia non è un male, è il male per eccellenza; non è un errore, è l’errore assoluto; non è un crimine qualsiasi, è il crimine nella sua accezione più lata e terrificante. Nemica inconciliabile del genere umano, ed essendo venuta alle mani con esso nella più grande battaglia che abbiano visto gli uomini e che abbiano presenziato i secoli, la fine della sua lotta gigantesca sarà la sua fine o la fine dei tempi".
"Il mondo vola; (…) Dio gli ha dato le ali con le quali vola, ed esso non sa dove va. Dove andava il popolo quando elevò a Parigi le sue barricate di febbraio? Andava alle riforme, e si incontrò con la repubblica. Dove andava quando elevò le sue barricate di giugno? Andava al socialismo, e si incontrò con la dittatura" (43). "Al punto in cui sono arrivate le cose, una soluzione radicale è urgentissima, (,,,) o una reazione o la morte'' (44). E' giunto per Donoso il momento di mostrare apertamente l'inclinazione per Narvaez, l'unico che può salvare la Spagna dalla rivoluzione.
Le Cortés avevano dato a Narvaez poteri straordinari, onde consentirgli di meglio fronteggiare la situazione. Il 4 gennaio 1849, in un momento in cui il capo del governo era maggiormente attaccato dall'opposizione (45), si levava Donoso Cortés a pronunciare quel "Discurso sobre la dictadura", che sarà pietra di scandalo per intere generazioni di studiosi del pensiero donosiano.
Non ci fermeremo a confutare la tesi di Karl Schmitt sul 'decisionismo' di Donoso, tesi che vorrebbe vedere nel marchese di Valdegamas un "teorico della dittatura" (46) o addirittura un precursore dello hitlerismo, come da altri è stato avanzato. La tesi di Schmitt è stata già demolita da Diego Sevilla Andrés (47), Eugenio Vegas (48), Angel López-Amo (49) e altri. Quanto all’hitlerismo, le stesse parole del discorso di Donoso mostrano che il tradizionalismo cattolico poco ha a che vedere col nazional-socialismo. Il fatto è che anche coloro i quali avevano plaudito al "Discurso" credevano d'aver trovato in Donoso Cortés l'ideologo del conservatorismo fine a sé stesso, il difensore degli interessi costituiti. La restaurazione si era risolta in un espediente meramente repressivo: aveva rimesso i Re sui Troni ma aveva lasciato fermentare le conquiste della rivoluzione, sedimentatesi durante l'epopea napoleonica. La Rivoluzione era infatti esplosa alla prima occasione con rinnovata violenza (49 bis).
Costoro, comunque, ebbero a rimanere notevolmente delusi quando il Donoso Cortés che aveva procurato e sostenuto il potere a Narvaez, glielo tolse bruscamente due anni dopo; e questo perché nemmeno Narvàez doveva aver capito che il cattolico marchese di Valdeganas intendeva dare a Cesare quel che era di Cesare, ma non di più. Ma veniamo al discorso.
Fin dalle prime parole Donoso Cortés sposta di peso il problema sui suoi giusti binari: "Signori, qual è il principio del signor Cortina? (…): in politica interna la legalità, tutto per la legalità, la legalità sempre, in tutte le circostanze ed in tutti i casi. Io, signori, che considero le leggi fatte per la società e non viceversa, vi dico: la società, tutto per la società, la società sempre, in tutte le circostanze, in ogni caso. Quando la legalità basta per salvare la società, sia la legalità, quando non basta, sia la dittatura" (50). "Dico, signori, che la dittatura, in certe circostanze, in circostanze come la presente, è un governo legittimo, buono, utile come qualsiasi altro" (51). Come si vede la filosofia di Donoso è semplice: a mali estremi, estremi rimedi. E per Donoso il male estremo è la Rivoluzione, repentinamente emersa dalla miniera parigina: "Signori, la rivoluzione di febbraio venne come la morte: improvvisamente" (52).
Quando Donoso parla di rivoluzione non intende riferirsi alla spontanea "jacquerie" di cui patisce ingiustizia, rivolta tesa più che altro a ripristinare l'armonia e l’equilibrio turbati da, tiranniche potestà. "Le rivoluzioni sono malattie dei popoli ricchi, dei popoli liberi" (53). "No, signori, il germe della rivoluzione non è nella schiavitù, non è nella miseria, ma nei desideri della folla, sovraeccitati dai tribuni che la sfruttano e ne traggono vantaggi personali" (54). Sono i demagoghi, aggiunge, che instillano in orecchie ignare l’antica tentazione, adattandola a tutte le situazioni: - Eritis sicut Dii, sarete come Dei -. Donoso mostra apertamente l’abisso che si è aperto tra le sue posizioni attuali e quelle dei liberali: "La base di tutti i vostri errori, signori dell’opposizione, consiste nell'ignorare qual è la direzione della civiltà e del mondo. Voi credete che la civiltà ed il mondo avanzino, quando invece sia l'una che l’altro retrocedono. Il mondo cammina con passi rapidissimi alla costituzione di un dispotismo, il più gigantesco ed assoluto che sia mai esistito a memoria d’uomo". "Per annunciare tali cosa non mi è necessario esser profeta; mi basta considerare il pauroso insieme degli avvenimenti umani dal loro unico, vero punto di vista, dall’altezza cattolica" (55).
Su quali elementi basa Donoso questa sua previsione? Dalla constatazione del fatto che "quando il termometro religioso è basso, la temperatura politica, la forza politica, la tirannia, salgono" (56). I cristiani dei tempi apostolici, dice Donoso, non avevano nemmeno tribunali, le loro vertenze erano risolte da arbitri. Ma scende la temperatura religiosa e appare la Monarchia feudale, la più debole fra tutte le monarchie (la religione è un po’ affievolita, è vero, ma è pur sempre nella regione del suo apogeo). Viene la Riforma luterana che abbassa vieppiù il termometro religioso, e appare la Monarchia assoluta. Con la Monarchia assoluta, gli eserciti permanenti. Cos'è un soldato, continua Donoso, se non uno schiavo in uniforme? (57). Scende ancora la temperatura religiosa ad ai governi assoluti non basta più un milione di braccia, vogliono adesso un milione di occhi. Nasce la polizia. La religione è quasi a zero; spunta la centralizzazione amministrativa (un milione di orecchi). Non basta: ai governi assoluti occorre poter essere dappertutto nello stesso momento. Questa facoltà, conclude, è messa loro a disposizione dal telegrafo. "La via è preparata per un tiranno gigantesco, colossale, universale, immenso; tutto è preparato per lui. Guardate, signori, già non vi sono resistenze fisiche, perché con le navi a con le ferrovie non esistono più frontiere, e con il telegrafo si sono annullate le distanze, e non vi sono resistenze morali, perché tutti gli animi sono divisi e tutti i patriottismi sono morti" (58).
Credere Donoso nemico acerrimo d'ogni conquista tecnologica, sarebbe fargli ingiustizia. Egli aveva in realtà intuito la confusione che derivava dall'associare il progresso della tecnica con quello della libertà e della perfezione dorale dell'umanità, confusione che conduceva ad un concetto uniforme di progresso. Non era stato il primo. Fin dal 1835 Tocqueville aveva previsto l’avvento del "perfetto formicaio", figlio della centralizzazione amministrativa, la 'révolution Francaise' che "recommencers, toujours et c'est toujours la meme". La diagnosi di Donoso Cortés non ha (né poteva avere) la precisione scientifica d'un Ernst Troeltsch o d'un Max Weber, ma basta a darci l'esatta dimensione delle capacità, intuitive dell’oratore estremegno. Si salverà la società? Il mondo invertirà la sua marcia verso la catastrofe? E' possibile, dice Donoso, ma poco probabile: "Ho visto e conosciuto uomini che si erano allontanati dalla fede e che vi sono tornati; ma, sventuratamente, non ho mai visto un popolo tornare alla fede dopo averla perduta" (59).
Riassumendo, la dittatura, in casi estremi e per brevi periodi, può essere necessaria (forse il miracolo stesso non è un potere straordinario, esercitato in situazioni straordinarie?); ma il problema non è questo: "Signori, se qui si trattasse di scegliere tra la libertà, da un lato, e la dittatura dall'altro, non vi sarebbe alcun dissenso; chi, potendo abbracciare la libertà, si inginocchierebbe dinanzi alla dittatura?" (60). "Ma la questione è diversa, si tratta di scegliere tra la dittatura dell'insurrezione e quella del governo; in questo caso scelgo la dittatura del governo, come la meno pesante e ingiuriosa" (61). La libertà è morta, conclude Donoso, ora bisogna scegliere tra la dittatura della Rivoluzione e quella dell’ultimo rimasuglio di governo legittimo che sia rimasto in piedi. Donoso non ha esitazioni: la sua opzione è per la seconda soluzione.
4. La corrispondenza con Montalembert.
Il discorso sulla dittatura ha una larghissima risonanza in Europa, E' tradotto in varie lingue, i giornali ne parlano diffusamente.
Già dal 6 novembre 1848 Donoso Cortés era stato nominato ambasciatore di Spagna a Berlino, ed è da Berlino che si intreccia una fitta corrispondenza con Montalembert, corrispondenza della quale Donoso approfitta per chiarire la sua posizione. "Il destino delle società umane è un mistero profondo, che ha ricevuto due spiegazioni contrarie, l'una del cattolicismo, l'altra del filosofiamo. Ciascuna di queste spiegazioni, forma una civiltà completa, ma tra queste due civiltà àvvi un abisso insormontabile, un antagonismo assoluto, ed i tentativi fatti per un amichevole accomodamento tra loro sono stati, sono e saranno perpetuamente vani" (62).
La civiltà cattolica, dice Donoso, insegna che la natura dell'uomo è inferma e caduca, quindi lo umano intendimento non può scoprire la verità se questa non gli viene rivelata. La civiltà filosofica insegna invece l'inverso, l'uomo è essenzialmente buono per natura, il suo intendimento può vedere la verità, scoprirla o inventarla. Essendo poi sana la sua volontà, cerca ed opera il bene naturalmente. La soluzione di ogni problema sociale sta nella eliminazione di ogni vincolo che impedisca all'uomo la libera estrinsecazione delle sue potenzialità, l'umanità sarà perfetta quando negherà Dio che è la sua catena soprannaturale; quando negherà il governo che è la sua catena politica; quando negherà la proprietà nel sociale e la famiglia, vincolo domestico (63).
Donoso, avvezzo ad andare al fondo di ogni questione ha colto il nocciolo del problema: la pietra di paragone tra il cattolicesimo e le dottrine mondane è il Peccato Originale, dall'uno affermato, dalle altre negato. Ecco quindi l'errore fondamentale del luteranesimo e del rousseauianismo: dire che l'uomo è essenzialmente buono o affermare che è essenzialmente cattivo è, tutto sommato, lo stesso, perché ciò equivale a dire che non è libero. Ed ecco la frase che per più di un secolo è valsa a Donoso la qualificazione di 'pessimista': "(…) il trionfo col volgere degli anni, sarà irremissibilmente della civiltà filosofica" (64). Se Donoso Cortés fosse vissuto ai nostri giorni, il suo punto di vista sarebbe stato più ottimista? Ne dubito.
Comunque, stando così le cose, a che pro combattere? Donoso così risponde: "Né mi si dica che se la vittoria è certa, la lotta è superflua, perché in primo luogo essa può ritardare la catastrofe, in secondo luogo essa è per i cattolici non solamente utile, ma doverosa" (65). "In quanto alla maniera di combattere, ne rinvengo una sola che possa oggi dare vantaggioso risultamento: il combattimento per mezzo della stampa periodica (…). I combattimenti dalla tribuna a poco giovano" (66). Queste ultime frasi sono meglio chiarite in una lettera del 4 agosto a Monsignor Gaume, vicario generale della diocesi di Montauban: "Mai ebbi fede né fiducia nell'azione politica dei buoni cattolici. Tutti i loro sforzi diretti a riformare la società per mezzo di assemblee e di governi saranno perpetuamente inutili (…). Sarebbe invece necessario invertire il procedimento, cominciando a riformare la società, e poi, valendosi della società già riformata, riformare le sue istituzioni" (67). Ecco le armi che Donoso, nemico d'ogni sovvertimento violento, propone (o sarebbe meglio direi ripropone?): l'apostolato e la predicazione.
La corrispondenza con Montalembert viene pubblicata in Spagna su "El Pais" e "El Heraldo". Per rispondere all'accusa di manicheismo, contro di lui formulata dai redattori dei due giornali, Donoso scrive il 16 luglio alle due redazioni, professandosi cattolico: "Io sono cattolico puro; credo e professo ciò che crede e professa la Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana" (68). "Ecco tutta la mia dottrina: il trionfo naturale dal male sul bene, e il trionfo soprannaturale di Dio sul male" (69). Come si ricorderà, Donoso aveva affermato nel discorso sulla dittatura di non aver mai visto un intero popolo ritornare alla fede; per lui la vittoria della civiltà filosofica è inevitabile, a meno di un miracolo.
All'accusa di negare ogni validità alla ragione umana risponde che se per ragione si intende la facoltà che Dio ha dato all’uomo di comprendere ciò che egli rivela e di trarne conseguenze vantaggiose per la vita e per la società, allora Donoso rispetta e venera la ragione umana come una delle opere più stupende di Dio, ma se per ragione si intende la facoltà di inventare la verità e di comprenderne quei presupposti fondamentali da cui tutte le altre verità nascono, senza l'aiuto della rivelazione divina, questa ragione Donoso Cortés arditamente nega. Fra le idee fondamentali di tutte le scienze e la ragione, aggiunge, esiste la medesima relazione che fra gli oggetti esterni e la pupilla dell'occhio; è una relazione di coesistenza, non di causalità (62).
Infine Donoso spiega perché la battaglia delle idee attraverso la stampa gli sembri l'unico tipo di lotta efficace: "Fra tutte le potestà nate dal nuovo ordinamento delle società europee, niuna è tanto grande, tanto colossale, quanto quella conceduta ad ognuno di parlare al popolo. Le società moderne hanno dato a tutti potere tessere periodisti; e a coloro che lo sono, hanno dato quel tremendo ufficio di insegnare alle genti, che Gesù Cristo diede solo agli Apostoli (…). L’arme che voi maneggiate può dare vita o morte". La parola è più terribile della spada, più rapida del fulmine, più distruggitrice della guerra (71).
5. Ambasciatore a Berlino
A Berlino Donoso resterà poco tempo; il clima gli è dannoso alla salute, non conosce poi il tedesco, difficoltà questa che lo infastidisce non poco. Ma la sua permanenza in Prussia lascerà il segno: il Re arriverà a citare passi dei suoi discorsi e lo stesso Bismarck lo menzionerà nelle "Memorie". Fin dalla prima udienza con Federico Guglielmo IV (che aveva una teoria semplicistica delle rivoluzioni, qualificava cioè semplicemente le città come rivoluzionarie e le campagne fedeli al trono) gli fa notare che il governo deve salvarsi da solo, e non aspettarsi tutto dai contadini. Nei dispacci che manda giornalmente a Madrid, Donoso si rivela perfettamente all'altezza del suo compito, diplomatico consumato e provvisto di acutissimo spirito di osservazione.
Quel che si svolge sotto i suoi occhi è la lotta tra Austria e Prussia per il predominio sugli stati tedeschi, ma Donoso intravede anche le idee liberaleggianti che dall'Assemblea di Francoforte stanno invadendo la Prussia assolutista. La presenza di studenti ricchi tra i rivoluzionari glie ne fa intuire la causa: "(…) le dottrine filosofiche della scuola hegeliana, causa principalissima del giro radicale e disorganizzatore che di qua del Reno vanno prendendo le rivoluzioni" (72). Presentisce il pericolo che può rappresentare per l'equilibrio continentale la presenza di una grande potenza al centro dell'Europa: "L'Europa non può considerare la costituzione di una confederazione come equivalente all'unità della Germania, perché in realtà non equivale ad essa, poiché implica soltanto un ingrandimento della Prussia" (73).
Ma l'analisi di Donoso si spinge più oltre. In due soli mesi di permanenza a Berlino si rende conto della esatta dimensione di quel che sta accadendo: "Lo scettro della dittatura europea mi sembra sia caduto dalle mani delle razze latine e che sia passato alle razze alemanne e slave", "La Francia stessa sembra camminare velocemente, se già non è arrivata, al termine di una prodigiosa decadenza. Da oggi in poi l'Europa dovrà ricevere tutto, il bene come il male, dalle razze che si muovono e si agitano da questa parte del Reno" (74). L'Assemblea di Francoforte vuole l'unità ad ogni costo, scrive, ma "la sua idea è ridurre la Monarchia a una sola testa, per poterla tagliare quanto prima" (75), l'esercito vede nell'unità solo il germanismo imperiale e tutti sono presi dalla stessa vertigine.
"Gli uomini qui non sembrano agenti liberi, padroni di sé stessi, ma strumenti di un potere misterioso che esercita su tutti una operazione magnetica". Donde proviene questo potere misterioso? "(…) da quello che i tedeschi nel loro misticismo demagogico chiamano l'IDEA" (76). Federico Guglielmo IV, dice Donoso, è "completamente inaccessibile ad ogni genere di consigli. E come potrebbe prestare orecchio attento agli avvisi degli uomini colui che vive persuaso che li riceve da Dio direttamente? Il suo Consiglio dei Ministri è in cielo e lo stesso Dio lo presiede. Se ha ministri quaggiù è per forma: ma li disprezza tutti d'un sovrano disprezzo. In qual modo possa combinarsi un tal re con un Governo costituzionale, ce lo diranno fin troppo presto i fatti e la storia" (77).
L'altero Sovrano ha rifiutato la Corona Imperiale che l'Assemblea gli offriva, ma "se si è opposto con ferrea risoluzione al decreto dell'Assemblea che poneva ai suoi piedi una corona, per riceverla poi con altro nome e in modo differente, è solo perché non poteva rassegnarsi a ricevere come dono quel che considerava come una proprietà, a ricevere dagli uomini quel che inviava Dio, a oscurare col decreto di un'Assemblea il decreto del cielo" (78). Ai poveri "principi tedeschi, collocati tra la rivoluzione che li schiaccia e la Prussia che li opprime con la sua onerosa protezione, non è rimasta altra scelta che quella del tipo di morte", cioè "se preferiscono morire di mano reale o di mano villana; hanno scelto la prima e si sono rassegnati alla morte" (78). II confronto tra democrazia e autoritarismo prima o poi verrà, è inevitabile, e sarà dappertutto. Si tratterà del cataclisma più grande che sia venuto sulle genti e che abbiano visto le nazioni, L'Europa uscirà da questo cataclisma, come annunciò Napoleone, repubblicana o cosacca" (80).
Ricca di interesse è altresì la corrispondenza che Donoso da Berlino teneva con l'amico conte di Raczynski (1788-1874), ambasciatore di Prussia a Madrid. Le lettere rivelano un Donoso stanco e sfiduciato: ''(…) gli affari pubblici mi ispirano tal ripugnanza che sono risolto a ritirarmi tra un po’ in un angolo qualsiasi, per vivere con la mia famiglia, con i miei amici e i miei libri" (81). Confessa all'amico che il venire a Berlino gli è sembrato un modo onorevole di ritirarsi per un po’ dalla Spagna, dove prevede di lì a poco l'arrivo della rivoluzione, cui non vuole dover assistere da testimone impotente: "Mai mi sono lasciato ingannare dalle apparenze di tranquillità e di calma in Spagna. Una nazione corrotta fino alle midolla delle ossa, tanto in alto, quanto in basso, deve fatalmente soccombere, il giorno più impensato, in una maniera o in un'altra. Generalmente si crede che il socialismo non sia penetrato in Spagna: errore, errore profondo. Il giorno in cui si saranno rotte le dighe, vedrete qui più socialisti che a Parigi (…). Il carattere storico degli spagnoli è l'esagerazione in tutto; (…) abbiamo esagerato nella perseveranza, fino a lottare per sette secoli contro gli Arabi; abbiamo esagerato nel sentimento religioso fino a creare la Inquisizione; ci manca solo di esagerare nel socialismo, e certamente lo faremo. Allora vedrete ciò che sono gli spagnoli innamorati di un’idea buona o cattiva che sia" (82).
Narvàez non è uomo di principi, "può essere un grande governante come è un grande guerriero: ma lo perderanno le cattive compagnie" (83). "Voi sapete che tra Narvàez e me non può esistere né amicizia, né simpatia; per i nostri caratteri, per i nostri gusti, per la nostra maniera di vedere e di apprezzare tutte le cose, siamo ai poli opposti" (84). Ma Narvaez è l'unico che abbia il polso e la volontà necessari per arginare la piena, per questo Donoso continuerà ad appoggiarlo. Chi avrebbe mai detto che sarebbe stato lo stesso Donoso, un anno più tardi, a provocarne le dimissioni? Occorrono uomini di principi, dice Donoso, che conducano la battaglia sul piano su cui deve essere condotta, cioè quello delle idee. Né lo illudono gli iniziali successi di Narvaez; la rivoluzione può essere dapprima materialmente vinta ovunque (87), ma inevitabilmente prima o poi rialzerà la testa per imporsi definitivamente (88).
Donoso Cortés è stanco, molto stanco. E malato. Non sa più se le sue nere profezie siano dovute a sicure diagnosi o alla depressione. "(…) comincio a credere che sono affetto da una vera e propria infermità morale, il cui effetto è vedere gli affari pubblici con i colori più oscuri" (89). Donoso è un uomo solo, un uomo che attraversa un periodo di profonda crisi spirituale, un uomo che vive e pensa contro corrente, i cui principali nemici sono i suoi stessi compagni di partito: ''(…) senza i moderati la rivoluzione non vivrebbe in nessun posto. I moderati sono stati causa dell'universal ruina e perdizione! Dio perdoni loro il male che hanno fatto!" (90).
Il pensatore estremegno ha colto lo spirito che anima il borghese liberale: l’odio verso la monarchia e l’aristocrazia lo porta a sinistra; il timore per i suoi beni minacciati dalla democrazia radicale e dal socialismo, lo spinge a destra; perennemente costretto ad oscillare tra i due estremi, sperando di ingannarli entrambi, vive solo il tempo necessario a rispondere alla domanda - Cristo o Barabba? - tramite una mozione postergatrice o la creazione di una commissione di studio (91). L'essenza del moderatismo è negoziare nella speranza di convertire lo scontro decisivo in dibattito parlamentare, o spostarlo indefinitamente per mezzo della discussione (92). Donoso Cortés non ha altro che disprezzo per i liberali, laddove si confronta con il socialismo ateo-anarchista, che è munito, a differenza dei primi, della forza della logica.
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