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Tema: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

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    Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    Corrispondenza con il conte di Montalambert



    Juan Donoso Cortés, Marchese di Valdegamas


    Berlino, 26 maggio 1849

    Signor Conte,

    mi prendo la libertà di rispondere nella mia lingua alla sua stimatissima del sette 10 poiché Lei comprende lo spagnolo, mentre io non riesco ad esprimere i miei pensieri in una lingua straniera, con la necessaria chiarezza e precisione. Quando Lei ebbe la bontà di scrivermi erano prossime le elezioni. Questa considerazione e il desiderio di non distrarre la sua attenzione durante tale periodo, mi trattenuto dal risponderLe; lo faccio ora, approfittando dell'intervallo tra le ultime operazioni elettorali e le prime discussioni dell'Assemblea legislativa.

    La simpatia di un uomo come Lei è la più bella ricompensa ai miei onesti sforzi tesi ad innalzare alla maggiore altezza possibile il principio cattolico, conservatore e vivificatore delle società umane. D'altra parte io non corrisponderei degnamente alla benevola simpatia di cui Ella mi onora se non mi presentassi ai suoi occhi così come sono, o come credo d'essere, con la verità sulle labbra e con il cuore in mano. Ciò è tanto più necessario, in quanto finora non ho avuto occasione di dire tutto ciò che penso intorno ai gravissimi problemi che oggi occupano le menti più elevate.

    Il destino dell'umanità è un mistero profondo, che ha avuto due spiegazioni opposte, l'una dal Cattolicesimo, e l'altra dalla filosofia; ognuna di esse, nel suo insieme, costituisce una civiltà completa. Ma fra queste due civiltà vi è un abisso insormontabile, un antagonismo assoluto, ed i tentativi diretti ad una transazione tra esse sono stati, sono, e saranno perpetuamente vani. L'una è l'Errore, l'altra la Verità, l'una è il Male, l'altra il Bene: è necessario scegliere tra le due decisamente, e dopo, accettare in tutte le sue parti l'una e condannare interamente l'altra. Coloro che tentennano tra le due, coloro che dell'una accettano i princìpi e dell'altra le conseguenze, cioè gli eclettici, sono fuori dal numero delle grandi intelligenze, e irremissibilmente condannati all'assurdo.

    Io credo che la civiltà cattolica contenga tutto il bene senza mescolanza di male, e che la filosofia contenga il male senza mescolanza di bene. La civiltà cattolica insegna che la natura umana è inferma e prostrata, in maniera radicale, nella sua essenza ed in tutti gli elementi che la compongono. Se la ragione umana è inferma, essa non può né inventare, né scoprire la verità, ma solo vederla quando le viene rivelata; se la volontà è inferma, non può volere il bene né operarlo se non è sorretta, e lo sarà soltanto se rimarrà sottomessa e dominata. Stando così le cose, è chiaro che la libertà di discussione conduce necessariamente all'errore, come la libertà di azione conduce necessariamente al male.

    La ragione umana non può vedere la verità se non le viene mostrata da una autorità infallibile e docente: la volontà umana non può volere il bene né operarlo se non è dominata dal timore di Dio. Quando la volontà si emancipa da Dio, e la ragione dalla Chiesa, l'errore ed il male regnano incontrastati nel mondo. La civiltà filosofica insegna che la natura umana è completa e sana in maniera radicale, nella sua essenza e negli elementi che la compongono. Se la natura umana è sana, può vedere la verità, scoprirla, inventarla; se la volontà è sana, vuole il bene e lo opera naturalmente.

    Posto ciò, è chiaro che la ragione, abbandonata a se stessa, arriverà a conoscere la verità, tutta la verità, e che la volontà, lasciata in balia di se stessa, realizzerà necessariamente il bene assoluto. È chiaro quindi che la soluzione del grande problema sociale sta nello spezzare tutti i vincoli che comprimono e schiacciano la ragione umana ed il libero arbitrio dell'uomo: il male non è in questo libero arbitrio o in questa ragione, bensì in quei vincoli. Se il male consiste nell'avere vincoli, ed il bene nel non averli, la perfezione sarà nel non averne di alcuna specie.

    Se è così, l'Umanità sarà dunque perfetta quando negherà Dio, che è il suo vincolo divino, quando negherà il governo, che è il suo vincolo politico, quando negherà la proprietà, che è il suo vincolo sociale, e quando negherà la famiglia, che è il suo vincolo domestico. Chi non accetta tutte ed ognuna di queste conclusioni si pone fuori della civiltà filosofica, e chi, ponendosi fuori di tale civiltà non entra nel grembo cattolico, cammina per i deserti del vuoto. Dal problema teorico passiamo al pratico. A quale di queste due civiltà andrà nel futuro la vittoria? Io rispondo a questa domanda senza che la mia penna tremi, senza che il mio cuore si stringa e senza che la ragione si turbi, che, nel tempo, il trionfo sarà inevitabilmente della civiltà filosofica. L'uomo vuol essere libero? Lo sarà. Odia le catene? Cadranno tutte, spezzate, ai suoi piedi. Vi fu un giorno che per provare la sua libertà, volle uccidere il suo Dio. Non lo fece? Non lo mise in croce, fra due ladroni? Scesero forse gli angeli dal cielo per difendere il Giusto che agonizzava sulla terra?

    Ed allora, perché dovrebbero scendere ora, che non si tratta della crocifissione di Dio, ma della crocifissione dell'uomo per mano di un altro uomo? Perché dovrebbero farlo proprio ora, quando la nostra coscienza ci grida che in questa grande tragedia nessuno, né quelli che debbono essere le vittime, né quelli che debbono essere i carnefici, merita il loro intervento? Qui si tratta di una questione molto grave: di chiarire nientemeno qual è il vero spirito del Cattolicesimo sulle vicissitudini di questa lotta gigantesca tra il male e il bene, o, come avrebbe detto sant'Agostino, tra la città di Dio e la città del mondo.

    Io, per me, ritengo cosa provata ed evidente che quaggiù il male finisce sempre per trionfare sul bene, e che il trionfo sul male è cosa riservata a Dio, a Dio personalmente, se può dirsi così. Per tale ragione non v'è periodo storico che non termini in una grande catastrofe. Il primo periodo storico comincia con la creazione e termina con il diluvio. Che significa il diluvio? Significa due cose: il trionfo naturale del male sul bene, ed il trionfo soprannaturale di Dio sul male, per mezzo di una azione diretta, personale, sovrana. L'Umanità è ancora fradicia delle acque del diluvio, e già ricomincia la stessa lotta; le tenebre tornano ad addensarsi all'orizzonte: alla venuta del Signore tutto è nuovamente plumbeo.

    Una densa e cupa nebbia ottenebra il mondo: il Signore sale sulla Croce e la luce torna sulla terra. Che significato ha questa grande catastrofe? Il trionfo naturale del male sul bene, ed il trionfo soprannaturale di Dio sul male, per mezzo di una azione diretta, personale, sovrana. Questa è per me la filosofia, tutta la filosofia della storia. Giambattista Vico fu sul punto di vedere la verità, e se l'avesse vista l'avrebbe esposta meglio di me: ma, smarrito ben presto il solco luminoso, si ritrovò circondato dalle tenebre. Nell'infinita varietà degli avvenimenti umani, credette di individuare sempre un ristretto e certo numero di forme politiche e sociali: per dimostrare il suo errore basta considerare il caso degli Stati Uniti, che non si inquadra in nessuna di quelle forme.

    Se fosse penetrato più profondamente nei misteri cattolici, avrebbe visto che la Verità sta in quella sua stessa proposizione, ma volta al contrario; la Verità sta nella identità sostanziale degli avvenimenti, velata e come nascosta dalla varietà infinita delle forme. Tale essendo il mio pensiero, lascio alla Sua meditazione indovinare la mia opinione sul risultato della lotta che oggi si combatte nel mondo. E non mi dica che se la vittoria è certa la lotta è superflua: perché, in primo luogo, la lotta può ritardare la catastrofe, ed in secondo luogo essa è un dovere, e non una semplice teoria per coloro che, come noi, si vantano di essere cattolici.

    Ringraziamo Dio di averci concesso la battaglia, e non invochiamo, oltre questa grazia, anche quella del trionfo a lui nella sua bontà infinita, riserva a chi ben combatte per la sua causa una ricompensa maggiore della vittoria. In quanto alla maniera di combattere, ne trovo una sola che possa dare oggi risultati vantaggiosi; la lotta per mezzo della stampa periodica. Oggi è necessario che la verità percuota i timpani, e che vi risuoni con monotonia, di continuo, se vogliamo che la sua eco giunga sino al recondito santuario dove le anime giacciono debilitate ed addormentate. Le lotte di tribuna servono a poco; i discorsi, se frequenti, non conquistano, se rari, non lasciano traccia nella memoria: gli applausi che riescono a strappare non sono trionfi, perché sono diretti all'artista, non al cristiano.

    Tra tutti i giornali che oggi si stampano in Francia, l’Univers (1) mi sembra quello che ha esercitato, specie in questi ultimi tempi, l'influenza più salutare e vantaggiosa. In questa specie di confessione generale che io Le faccio, debbo dichiarare ingenuamente che le mie idee politiche e religiose di oggi non sono le stesse che ho professato in altri tempi. La mia conversione ai buoni princìpi è dovuta in primo luogo alla misericordia divina, e poi allo studio profondo delle rivoluzioni.

    Le rivoluzioni sono i fanali della Provvidenza e della Storia; si può dire che coloro i quali hanno avuto la fortuna o la disgrazia di vivere e morire in tempi calmi e pacifici hanno attraversato la vita e sono giunti alla morte senza uscire dall'infanzia. Solo quelli che, come noi, vivono in mezzo alla tormenta, possono indossare la toga virile e dire di sé stessi che sono uomini. Sotto un certo aspetto e fino ad un certo punto le rivoluzioni sono buone come le eresie, perché confermano la fede e la rischiarano. Io non avevo compreso la gigantesca ribellione di Lucifero, finché non ho visto con i miei occhi l'orgoglio insensato di Proudhon; la cecità umana ha quasi cessato di essere un mistero in confronto alla cecità incurabile ed infinita delle classi ricche.

    Chi può oggi porre in dubbio il dogma della perversione congenita della natura umana e della sua inclinazione al male, se pone gli occhi sulle falangi socialiste? È tempo di por termine a questa lettera, che non esige risposta, non essendo, com'è, altro che lo sfogo di un uomo ozioso diretto ad un uomo occupato. Quando avrò il piacere di incontrarLa parleremo più tranquillamente di questi grandi problemi; allora avrò il piacere di avere dalle Sue mani la collezione dei Suoi eloquentissimi discorsi, dono prezioso per chi, come me, stima il Suo nobile carattere ed ammira l'elevatezza del Suo chiaro ingegno.

    Intanto mi dichiaro Suo devotissimo JUAN DONOSO CORTES Marchese di Valdegamas

    ------------------------------------------------------
    Berlino, 4 giugno 1849

    Signor Conte,

    ho ricevuto oggi una sua lettera del 1 giugno (2), in risposta a quella che ebbi l'onore di scriverle il 26 maggio. La identità delle nostre idee è una delle cose che più poteva lusingarmi, e che più mi lusinga. La sua amicizia e simpatia sono cose inestimabili, e io so apprezzarle nel loro valore. La nostra identità di vedute è più grande ed è più assoluta di quanto Le sembra. La civiltà cattolica può essere considerata sotto due aspetti differenti: o in sé, come complesso di princìpi religiosi e sociali, o nella sua realtà storica, nella quale questi princìpi si combinano con la libertà umana.

    Considerata dal primo punto di vista, la civiltà cattolica è perfetta, considerata dal secondo punto di vista, essa, nel suo sviluppo nel tempo e nella sua estensione nello spazio, si è assoggettata alle imperfezioni e alle vicissitudini di tutto ciò che si estende nello spazio e si prolunga nel tempo. Nella mia lettera considerai questa civiltà solo dal primo punto di vista. Considerandola adesso dall'altro, e cioè nella sua realtà storica, dirò che, essendo nate le sue imperfezioni unicamente dalla sua combinazione con la libertà umana, il vero progresso sarebbe costituito nell'assoggettare l'elemento umano, che la corrompe, all'elemento divino, che la purifica.

    La società ha seguito un cammino differente: dando per morto l'impero della fede e proclamando l'indipendenza della ragione e della volontà dell'uomo, ha convertito il male, che era relativo, eccezionale e contingente, in assoluto, universale e necessario. Questo periodo di rapido regresso cominciò in Europa con la restaurazione del paganesimo letterario, la quale provocò, l'una dopo l'altra, le restaurazioni del paganesimo filosofico, di quello religioso e di quello politico.

    Oggi il mondo è alla vigilia dell'ultima di queste restaurazioni: la restaurazione del paganesimo socialista. La Storia può già formulare il suo giudizio su queste due grandi civiltà, delle quali l'una consiste nel conformare la ragione e la volontà dell'uomo all'elemento divino; l'altra nel lasciare da parte l'elemento divino e nel proclamare l'indipendenza e la sovranità dell'elemento umano. Il secolo d'oro della civiltà cattolica, cioè il secolo in cui la ragione e la volontà dell'uomo si uniformarono nella maniera meno imperfetta all'elemento divino, o (che è la stessa cosa) all'elemento cattolico, fu senza alcun dubbio il secolo XIV; così come il secolo di ferro della civiltà filosofica, vale a dire il secolo in cui la ragione e la volontà dell'uomo sono giunti all'apogeo della loro indipendenza e sovranità, è senza dubbio il secolo XIX.

    E del resto, questo grande regresso era in quella legge, saggia e al tempo stesso misteriosa, con la quale Dio dirige e governa il genere umano. Se la civiltà cattolica avesse avanzato in un progresso continuo, la terra sarebbe diventata il paradiso dell'uomo, e Dio ha voluto che essa fosse una valle di lacrime. Se Dio fosse stato socialista, che sarebbe stato allora Proudhon? Ciascuno sta bene dove sta: Dio in cielo, e Proudhon in terra.

    Proudhon cercando sempre, senza mai trovarlo, un paradiso in una valle di lacrime, e Dio ponendo questa gran valle tra due grandi paradisi, affinché l'uomo stia tra una grande speranza e un grande ricordo. Venendo ora al desiderio che Lei mi esprime, a nome dei redattori dell'Univers, di pubblicare la mia lettera, debbo dirle che in altri tempi avrei trovato una grande difficoltà a permetterlo, ma che oggi non ne vedo alcuna. In passato ho avuto il fanatismo letterario, il fanatismo dell'espressione, della bellezza della forma, e la forma di una lettera privata non è né letteraria, né bella; ma questo fanatismo è passato. Oggi ho più disprezzo che ammirazione per codesto talento, che è una malattia nervosa più che una dote dello spirito. Quando avrò il piacere di vederLa, parleremo più a lungo di tutti questi argomenti; per una lettera bastano queste brevi indicazioni. Frattanto sono il suo devotissimo marchese di Valdegamas.

    NOTE

    * Charles-René Montalembert, conte di Forbés, nacque a Londra il 15 aprile 1810 e morì a Parigi il 13 marzo 1870. Entrato nel 1830 nella redazione dell'"Avenir", si unì al Lamennais ed al Lacordaire nel sostenere la necessità e l'attualità di un nuovo assetto politico liberale, fondato sulla religione cattolica, cui rispondesse un ammodernamento della Chiesa in senso liberale. Nel 1832, l'"Avenir" per tale atteggiamento fu condannato dalla Chiesa, ed il Montalembert si sottomise, pur senza modificare la sua ideologia. Fece parte della Camera dei Pari dal 1831 e, dopo la rivoluzione del 1848, entrò nella Costituente, dove assunse una posizione di estrema destra e divenne sostenitore di Luigi Napoleone Bonaparte alla presidenza della Repubblica. Non rieletto nel 1857, si dedicò con fervore al giornalismo, soprattutto attraverso l'assidua collaborazione al "Correspondant", dalle cui colonne condusse vivaci polemiche con gli ultramontanisti. Negli ultimi anni di vita il suo intimo distacco da Roma si fece sempre più radicale. Donoso Cortes conobbe quasi certamente il Montalembert, durante il suo esilio parigino tra il 1840 ed il 1843.

    (1) L'Univers" fu un giornale fondato a Parigi dall'abate Migne, edito la prima volta il 3 novembre 1833, con il titolo "L'Univers religieux"; tale foglio acquistò fama e diffusione crescente sotto la direzione di Louis Veuillot, redattore capo dal 1845. Louis Veuillot, giornalista e scrittore francese, nato a Boynes l'11 ottobre 1813 e morto a Parigi il 7 aprile 1883, iniziò la sua attività giornalistica nel 1830, con la collaborazione prima all'"Écho de Rouen", poi al "Mémorial de la Dordogne" e più tardi alla "Charte de 1830", dove difese la Résistance, cioè l'ala destra del liberalismo costituzionale, contro l'ala sinistra, il cosiddetto Mouvement. Dopo un viaggio a Roma, nel 1838, il Veuillot, che era stato un vigoroso difensore laico dell'ultramontanismo, trovò nel cattolicesimo romano la forma di religione che egli cercava da tempo e vi si convertì. Nel 1840 fu nominato ministro degli interni nel Gabinetto Guizot, ma nel 1843 rinunziò a tale incarico per darsi al giornalismo, divenendo vice redattore dell'"Univers".

    Attraverso questo foglio, di cui in seguito divenne direttore, condusse con vigore la campagna per la libertà dell'insegnamento insieme con i cattolici liberali, da cui poi si separò clamorosamente, e in difesa dei gesuiti. Nel 1848 sperò nella democrazia repubblicana, ma dopo l'insurrezione la simpatia si mutò in diffidenza, mentre si accentuava il suo dissidio con i cattolici liberali come Montalembert, Falloux, Dupanloup e lo stesso Arcivescovo di Parigi, mons. Sibour. Forte dell'appoggio e della simpatia di Pio IX, egli condusse in maniera violenta, sia attraverso il suo giornale che con numerose opere (Mélanges religieux, historiques et litteraires; Qa et la'. Le Pape et la diplomatie; Le Parfum de Rome), una strenua difesa degli interessi pontifici nella questione italiana, tanto che Napoleone III soppresse nel 1860 "L'Univers", che potè riapparire solo sette anni dopo. Anche dopo l'occupazione di Roma, nel 1870, il Veuillot non abbandonò il suo posto di combattimento in difesa della Chiesa. Negli ultimi anni di vita lasciò al fratello Eugène la cura del giornale. (Tra le molte biografie di L. Veuillot la più completa e interessante è quella scritta da suo fratello Eugène: E. VEUILLOT, Louis Veuillot, 3 voll., Parìa, 1899-1904).

    (2) In questa lettera datata Parigi 1849, il M., contestando a Donoso Cortés la sua opinione sulla civiltà cattolica, dice: "Mi stimo fortunato di condividere in tutto, o quasi in tutto, le sue opinioni. Credo come Lei che veramente la civiltà filosofica rappresenti il male senza alcuna mescolanza di bene, ma non concedo tanto assolutamente che la civiltà cattolica, la quale non è stata istituita cosi direttamente da Dio come la Chiesa, contenga il bene senza alcuna mescolanza di male, perché gli uomini mescolano sempre il male in tutto ciò che essi fanno".

    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - Corrispondenza con il conte di Montalambert


  2. #2
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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

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    LETTERA A LOUIS VEUILLOT


    Juan Donoso Cortés,Marchese di Valdegamas


    Madrid, 3 marzo 1851

    Mio caro amico:

    ho ricevuto la Sua lettera del 22 febbraio, e con essa le osservazioni che il signor... ha fatto sul mio libro. Queste osservazioni mi sono sembrate sagge, precise e profonde, e La prego di dare al signor... i dovuti ringraziamenti per il suo lavoro. Io le ho seguite attentamente; pertanto, non è restato nel mio libro nessuna cosa di quelle che non gli sono sembrate buone. Unitamente Le accludo le modifiche che ho fatto tenendo conto delle sue osservazioni. Gliel'ho detto e voglio ripeterglielo: non m'intendo di teologia, scienza al cui studio non mi sono dedicato, nemmeno come scolaro. Se qualche volta si rivela esatto ciò che dico su questa materia, è perché indovino la soluzione della Chiesa. Ma, da questa divinazione vaga e fortunata alla vera scienza c'è molta distanza. La prego, quindi, e questo chiedo pure al signor..., che, quando vi accorgiate che ho errato, crediate che la mia intenzione è sempre buona, che è stato pura ignoranza mia e non altro, e che sono pronto ad ascoltare le lezioni non solo della Chiesa, la cui voce è quella di Dio, ma anche di qualsiasi saggio che voglia darmi l'elemosina spirituale dei suoi lumi.

    Introdurrò queste varianti nel mio manoscritto ed immediatamente lo porterò al tipografo, che lo sta aspettando. Tuttavia credo che il vostro tipografo finirà prima del mio; qui per ogni cosa si impiega più del doppio del tempo che si impiegherebbe a Parigi. Per il resto, devo affidare questo incarico ad una persona sollecita, perché dovrò partire da qui in missione diplomatica; non so se andrò a Parigi o a Napoli, credo a Parigi. Sarà deciso fra pochi giorni, e partirò a metà o al più tardi alla fine di questo mese. La vita pubblica mi si fa insopportabile; se vado a Parigi, mi consolerò con lo stringerLe la mano e dirLe quanto io La stimi e l'ammiri. Sono assolutamente sincero quando dico che L'ammiro. Santo Iddio! Com'è possibile fare tutto ciò che Lei fa e scrivere tutto ciò che scrive? Non riesco a capirlo.

    Da parte mia, parlo e scrivo solo occasionalmente; ma ciò che Lei fa è opera tale che sconfina nel prodigioso e che mai finirò di capire. Beato Lei che ha la forza di sopportare un così duro lavoro e sostenere una lotta così gloriosa per la causa della Chiesa, che è poi la causa di Dio! Mi congratulo con Lei e anche con il conte di Montalembert per la vostra reciproca riconciliazione (1), questa che mi date è una fausta notizia.

    C'era un non so che di profondamente triste nella separazione di due uomini che Dio ha formato perché vivano sempre come fratelli ed amici. Prego Iddio per i suoi figli, e credo che vadano per la buona strada; prego anche per i suoi cappuccini, che sono anche suoi figli. Ammiro l'eroica lotta che Lei sostiene in favore di questi religiosi, che non vogliono altro che poter lavorare liberamente per curare le anime tiepide. Lei mi chiede dei dati per una notizia biografica, ed io la supplico di dispensarmi dall'obbedienza in questa occasione. Il pubblico la esige : ragione di più per negargliela.

    Oggi è di moda mettersi in evidenza, la qual cosa a me sembra oltremodo ridicola, tanto più quando in vetrina debba mettersi una persona meschina come me. Quando vorrete conoscere la mia vita, la conoscerete. Dopo Dio essa appartiene ai miei parenti ed amici, ma il pubblico non ha nulla a che fare con me, ne io con lui. I miei rapporti con il pubblico non possono essere benevoli, perché io l'accuso di viziare tutto ciò che tocca, cominciando da se stesso. Tra la mia persona e il mondo non possono correre altre relazioni che quelle che Dio pose tra il demonio e la donna: l'inimicizia.

    Addio, caro amico: forse a tra poco. VALDEGAMAS

    NOTE


    *
    Louis Veuillot, direttore dell'" Univers fu l'amico francese più costante ed intimo di Donoso Cortés. Lo consolò nelle sue tristezze e malattie, avviandolo verso la pratica della virtù. Il Veuillot fu, inoltre, l'editore francese delle opere di Donoso Cortes e lo incitò a scrivere il Saggio sopra il cattolicesimo, il liberalismo ed il socialismo.

    (1)
    II contrasto esistente tra il Veuillot ed il Montalembert derivava dalla diversa concezione dei due nei confronti dei rapporti tra Dio e il mondo. Infatti, mentre il Montalembert inizialmente appartenne a quel gruppo di cattolici liberali che faceva capo all' "Avenir" ed in seguito al "Correspondant", e che auspicò un ammodernamento della Chiesa in senso liberale, il Veuillot sosteneva, invece, la rigida posizione assunta da Pio IX di fronte al liberalismo.

    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - LETTERA A LOUIS VEUILLOT

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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    Lettera a Blanche-Raffin
    Juan Donoso Cortés, Marchese di Valdegamas


    Berlino, 21 luglio 1849

    Mio carissimo amico,

    con estremo piacere ho ricevuto la lettera che Lei ha avuto la bontà di scrivermi il 15 corrente. Il mio piacere è stato tanto più grande in quanto Lei ha una parte, nella conversione che Dio, per la sua grazia, ha operato in me, che Lei stesso ignora. Tanto imperscrutabili, tanto profondi sono i misteri delle vie del Signore! Nell'intimo della mia anima io sono sempre stato credente; ma la mia fede era sterile, perché né governava i miei pensieri, né ispirava i miei discorsi, né guidava le mie azioni.

    Credo, tuttavia, che se al tempo in cui ero maggiormente lontano da Dio mi avessero detto : "Abiura il cattolicesimo, o soffrirai grandi tormenti", mi sarei rassegnato ai tormenti, per non rinnegare il cattolicesimo. Tra questo stato d'animo e la mia condotta c'era, senza alcun dubbio, una mostruosa contraddizione. Ma che altro siamo noi, quasi sempre, se non un insieme mostruoso di mostruose contraddizioni? Due cose mi hanno salvato: il sentimento squisito che ebbi sempre della bellezza morale e una sensibilità di cuore che rasenta quasi la debolezza; il primo doveva farmi ammirare il cattolicesimo, e la seconda doveva farmelo amare con il tempo.

    Durante il mio soggiorno a Parigi fui molto intimo di M....(riferimento a Montalembert), e quell'uomo mi soggiogò con il solo spettacolo della sua vita, che avevo sempre davanti agli occhi. Io avevo conosciuto uomini onorati e buoni, o per meglio dire non avevo mai conosciuto che uomini onorati e buoni; e tuttavia, tra la bontà e l'onorabilità degli uni e la bontà e l'onorabilità dell'altro, trovavo una distanza immensa; e la differenza non stava nel differente grado di onorabilità, ma nel genere completamente diverso di onorabilità.

    Pensandoci su su, finii per convincermi che la differenza consisteva nel fatto che la prima era onorabilità naturale, e l'altra soprannaturale o cristiana.

    M... mi presentò a Lei e ad alcune altre persone unite dai vincoli dello stesso credo; da allora quel convincimento mise radici più profonde nell'anima mia e arrivò ad essere invincibile per la sua profondità. Ma Dio mi aveva preparato un altro strumento di conversione più efficace e potente. Ebbi un fratello che vidi vivere e morire, e che visse da angelo e morì come morirebbero degli angeli se fossero mortali. Da allora giurai di amare e adorare, e amo e adoro... - stavo per dire ciò che non posso dire, lo stavo per dire con tenerezza infinita - il Dio di mio fratello.

    Sono già passati due anni da quella tremenda disgrazia. Io so, per quanto possono saperlo gli uomini, che egli sta in cielo, che gode della visione di Dio, e che intercede per lo sventurato fratello che ha lasciato in terra. Ciononostante le mie lacrime non hanno fine, ne l'avranno se Dio non viene in mio aiuto. So che non è lecito amare tanto una creatura; so che i cristiani non debbono piangere per coloro che muoiono cristianamente, perché essi si trasfigurano e non muoiono; so tutto questo, e so infine che sant'Agostino ebbe degli scrupoli per aver pianto sua madre; e tuttavia piango, e piangerò finché avrò vita se Dio, nella sua infinita misericordia, non mi da forza.

    Eccole, amico mio, l'intima e segreta storia della mia conversione; ho voluto raccontargliela per sfogarmi, e perché in essa, senza saperlo. Lei ebbe una parte. Come vede, in essa non hanno avuto alcuna influenza né l'ingegno né la ragione; con il mio ingegno debole e con la mia ragione inferma, avrei raggiunto la morte, prima di trovare la vera fede. Il mistero della mia conversione (perché ogni conversione è un mistero) è un mistero di tenerezza. Non lo amavo, e Dio ha voluto che lo amassi, ed io lo amo; e poiché lo amo, sono convertito.

    Passiamo ad altro. Il servizio che Lei ha reso alla causa cattolica, facendo conoscere il Balmes (14), è grandissimo, ed io gliene sono grato e come cattolico e come spagnolo. II Balmes onora la sua patrio : uomo di ingegno chiaro, acuto, solido, fermo nella fede, agile nella lotta, polemista e dottore nella stesso tempo, pochi come lui hanno meritato in questo secolo di lasciare in eredità agli uomini una buona memoria di sé. Io non lo conobbi, ed egli non mi conobbe; però lo stimai e so che mi stimava; ho visto solo il suo ritratto e anche questo dopo la sua morte.

    La Provvidenza ci aveva posti in partiti politici opposti, sebbene, poco tempo prima della sua morte, la religione ci ispirasse le stesse cose. Non so se Lei sa che circa un mese prima che il Balmes pubblicasse il suo scritto sopra Pio IX, io avevo trattato lo stesso tema e il medesimo argomento". Balmes ed io dicemmo le stesse cose, esprimemmo lo stesso giudizio, formulammo le stesse opinioni. Ma la cosa più singolare, e che innalza al massimo l'ingegno del Balmes, è che, dicendo dopo di me quello che io già avevo detto, lo disse in modo così suo che neppure per caso si ritrova nel suo scritto una sola delle idee secondarie che io avevo già esposte nel mio scritto precedente. Prova insigne della ricchezza del suo arsenale e della abbondanza delle sue armi!

    Quest'ultimo suo scritto è notevole sotto un altro punto di vista. Il Balmes, che fu sempre un grande pensatore, non era mai stato un grande scrittore; i suoi saggi letterari non stavano a pari coi suoi saggi filosofici. Intento esclusivamente alle idee, aveva trascurato l'espressione, che in genere era fiacca, anche se grandi erano le idee. Il suo stile era debole, diffuso, e l'abitudine alla polemica, codesta assassina di stili, lo aveva reso verboso. Ebbene : nell'opera su Pio IX, il Balmes solleva improvvisamente l'espressione all'altezza dell'idea, e l'idea grandiosa brilla per la prima volta in lui rivestita di una espressione magnifica e grandiloquente.

    Quando il Balmes morì, lo scrittore era degno del filosofo : giudicati col metro della critica, erano pari. Ancora, quindi. La ringrazio per lo zelo e l'intelligenza con i quali Lei rende popolare in Francia un uomo così eminente. Ricordo i due profili di cui Lei mi parla; li scrissi a Parigi, e se non sbaglio, nel periodo in cui ci conoscemmo. Non hanno altro merito che la sagacia con cui credo di aver penetrato il carattere morale e intellettuale di quei due uomini (16). Non dubito che giungerà quel giorno, che Lei vede avvicinarsi, in cui il campo apparterrà agli uomini di buona volontà e dalle pure credenze (17). Ma non dubiti, quel giorno sarà passeggero; la società è definitivamente colpita a morte, e morrà perché non è cattolica, solo il Cattolicesimo è vita.

    Io penso di tornare presto in Spagna e ritirarmi per qualche tempo dalla vita pubblica per meditare e scrivere. Il turbine politico da cui mi sono visto travolto mio malgrado non mi ha lasciato fino ad ora un giorno in pace ne un momento di riposo; è giusto che prima di morire mi ritiri per alcuni anni a parlare con Dio e con la mia coscienza da solo a solo. Per me, l'ideale della vita è la vita monastica. Credo che facciano più per il mondo quelli che pregano che quelli che combattono; e che se il mondo va di male in peggio, è perché le battaglie sono più numerose che le preghiere.

    Se potessimo penetrare nei segreti di Dio e della Storia, ritengo che rimarremmo sbalorditi nel vedere i prodigiosi effetti della preghiera, anche nelle cose umane. Perché la società riposi, è necessario un certo equilibrio, che solo Dio conosce, tra l'orazione e l'azione, tra la vita contemplativa e quella attiva. La chiave di volta dei grande rivolgimenti di cui siamo testimoni è forse nella rottura di questo equilibrio. Il mio convincimento sul tale punto è così profondo, da farmi ritenere che se ci fosse una sola ora di un solo giorno in cui la terra non inviasse al cielo alcuna preghiera, quel giorno e quell'ora sarebbero l'ultimo giorno e l'ultima ora dell'universo. Se capiterà l'occasione di incontrarci o a Parigi o in Spagna, sarà per me un vivo piacere assicurarLe personalmente che non v'è amicizia che mi sia più cara della sua. Intanto mi abbia, suo affezionatissimo JUAN DONOSO CORTES

    NOTE


    *
    Alberich de Blanche, marchese di Raffin, fu uno degli amici francesi; egli, con la limpidezza della sua vita, influì sulla " conversione " di Juan Donoso Cortes.

    (14)
    Jaime Luciano Balmes (1810-1848) sacerdote, politico e filosofo, operò sui periodici da lui fondati e in diverse pubblicazioni in difesa del cattolicesimo secondo i principi della neoscolastica. Fu un grandissimo apologista ed alcune sue opere sono oggi fruibili in internet.
    (15) Nel mese di settembre 1848 aveva pubblicato su " El Faro " alcuni articoli intorno a Pio IX. Eccone i titoli: 1) Italiani e Spagnoli. 2) Caratteri delle sue riforme. 3) Ostacoli interni che si oppongono alle sue riforme. 4) Ostacoli esterni. Questi articoli raggruppati costituiscono il suo saggio Las reformas de Pio IX.
    (16)
    Allude a Lamartine e a Guizot, dei quali aveva parlato in alcune lettere pubblicate nel 1842 sull'" Heraldo ".
    (17) II marchese di Raffin aveva precedentemente scritto al Cortes, che, sebbene tenesse in gran conto le sue profezie, sperava tuttavia che gli uomini di buona volontà e dalle pure credenze avrebbero potuto giovare alla buona causa nei tempi futuri.

    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - Lettera a Blanche-Raffin

  4. #4
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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    Lettera al duca di Valmy


    Juan Donoso Cortés, Marchese di Valdegamas


    Madrid, 20 luglio 1850

    Ho ricevuto, signor duca, la sua stimata lettera del 9. Lei è una persona che mi ispira grande fiducia, e sento inoltre che la sua amicizia mi è così necessaria, che, per meritarla, mi propongo di essere con Lei assolutamente franco. Non so, in verità, come farò ad esprimerle, in una lingua a me estranea, quello che debbo dirle; ma ad ogni modo cercherò di farmi intendere da Lei, e ciò mi basterà.

    La questione è la seguente: il sistema generale di politica adottato da Pio IX al principio del suo pontificato fu buono o cattivo? A questa domanda io ho dato due risposte in sostanza identiche, in apparenza contraddittorie; poiché in una occasione ho detto "sì", e in un'altra ho detto "no". Ho detto "sì" in uno scritto intorno a Pio IX, che ha visto la luce prima di quello del signor Balmes sullo stesso argomento, e che non è conosciuto in Francia; glielo manderò alla prima occasione favorevole, sebbene ignoro se Lei comprenda lo spagnolo. Ho detto "no" in uno dei miei discorsi, diffuso per mezzo del signor Val-Roger, che ebbe la bontà di unire il mio nome a quello di Balmes (1) nell'Ami de la Religion (2).

    Ebbene, ora voglio esprimere interamente il mio pensiero.

    II mondo credeva che la Chiesa non fosse così cattolica come afferma il suo nome; il mondo credeva che la Chiesa fosse una regina servita da schiavi, e che soltanto i suoi schiavi le si potessero avvicinare liberamente. Era necessario aprire gli occhi al mondo, e Pio IX è stato l'uomo di cui Dio ha voluto servirsi per compiere tale opera; così si deve interpretare, a mio giudizio, l'operato di questo grande Pontefice. Come in altri tempi il Divino Maestro ha chiamato a sé i Giudei ed i gentili, così il grande Pontefice è venuto per chiamare a sé i monarchici e i liberali. È stato crocifisso dai liberali, come il suo Maestro lo è stato dai Giudei. Ah, Giudei! Ah, liberali!... Sia in un caso che nell'altro c'è stata una chiamata seguita da una catastrofe; e in un caso e nell'altro, nonostante la catastrofe, bisogna considerare buona la chiamata. Questo è il mio "sì". Ora ecco il mio "no".

    Mi sembra bene che i liberali siano stati chiamati, ma a condizione che, come gli stessi Ebrei, siano chiamati una sola volta per tutte fino alla fine dei tempi: credo che il nostro grande Pontefice sarà della stessa opinione. Penso di essere sulla buona strada quando approvo ciò che è stato fatto; ma non credo per questo che si debba rinnovare l'esperienza. Era giusto, prudente ed anche necessario che la Chiesa aprisse le sue braccia a tutto il mondo; ma è anche giusto, prudente e necessario che la Chiesa, senza chiudere le sue braccia, giri lo sguardo verso quelli che si sono incanutiti rispettandola e amandola. Nostro Signore chiamò tutti, benedì tutti, perdonò tutti e pregò per i suoi nemici; ma quando, passata la catastrofe, uscì dal sepolcro, non mandò Maria Maddalena a riunirsi coi suoi nemici, bensì con i suoi apostoli e i suoi fratelli.

    Le confesserò francamente che mi preoccupa vedere la strada sulla quale si è messa certa parte del clero francese. Col pretesto di non voler fare la Chiesa solidale con un partito o con una forma determinata di governo, si pretende di lanciarla nell'avventura. Come non vedono quei disgraziati che per questa strada si va per forza a finire in una catastrofe? Nostro Signore ha minacciato di disconoscere in cielo colui che si vergogna di confessarlo in terra. Come possono ignorare questi sacerdoti di cui sto parlando che, consigliando la Chiesa a disconoscere i suoi fedeli e a vergognarsi dei suoi amici, non fanno altro che consigliarla a commettere quel grande peccato che è la vergogna e l'ingratitudine? Forse questo potrà essere il consiglio della prudenza umana; ma la prudenza umana è a volte ben meschina e imprudente. Ho l'onore, signor duca, di salutarla come sempre, il suo affezionatissimo e rispettoso Marchese di Valdegamas.

    NOTE


    *
    Juan Donoso Cortes sostenne col duca di Valmy una lunga relazione epistolare, della quale ci restano prove nell'archivio della famiglia Cortes, in Don Benito (Badajoz).

    (1)
    Hyacinthe de Valroger, oratoriano (1814-1876), fu un avversario del razionalismo moderno, che combatté in vari scritti, anche su giornali e riviste; amico di Gratry, raccolse scritti di De Maistre.
    (2) "L'Ami de la Religion et du Roi" fu un giornale ecclesiastico, politico e letterario che vide la luce in Francia, a Parigi, dal 1814 al 1865.

    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - Lettera al duca di Valmy

  5. #5
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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    LETTERA ALLA REGINA MARIA CRISTINA
    Juan Donoso Cortés, Marchese di Valdegamas


    Parigi, 26 novembre 1851

    Maestà,

    la franca e generosa libertà che V. M. si è sempre degnata di concedere a coloro che hanno avuto la fortuna di starle accanto, ed a me in particolare, mi dà l'audacia necessaria per sottoporre all'alta saggezza di V. M. alcune osservazioni, in occasione del prossimo avvenimento che avrà una influenza fortissima sull'avvenire della nazione spagnola.

    Il felice giorno del parto di V. M. si avvicina, e tale giorno sarà lieto per tutti, compatrioti e stranieri, perché con esso una delle più belle monarchie d'Europa avrà un erede.

    Un tale evento sarebbe stato fausto in ogni altra circostanza ed in ogni tempo: ma particolarmente fortunato e memorabile sarà oggi, che tutte le monarchie vanno perdendo terreno, e che le più stabili e potenti o sono già crollate o vacillano sotto la violenza delle tempeste.

    I giornali della capitale hanno già annunciato parte dei grandi festeggiamenti che per tale ragione si preparano; e benché nessuna cosa sembri più di questa naturale e conforme alle antiche usanze, di celebrare con feste e divertimenti un sì fausto evento, V. M. mi permetterà, tuttavia, di farle osservare che la diversità dei tempi esige una analoga diversità nei costumi, e che i tempi odierni non ci consentono di continuare le usanze dei nostri padri senza introdurre le necessario modifiche. I nostri avi vissero in periodi di grande calma per le Nazioni, e di splendore e grandezza per le Monarchie; noi. invece, viviamo in tempi di così grande desolazione e angoscia che nessuno ormai sa più dire se Monarchia e Nazioni non corrano il rischio di naufragare insieme.

    Poiché, nello scrivere a V. M., non ho intenzione di fare una dissertazione sulle vie attraverso le quali l'Europa è giunta a sì deplorevole situazione, mi limiterò solamente a far rilevare un fatto notorio.

    L'Europa non è tormentata da molte e differenti malattie, ma da una sola, epidemica e contagiosa, che, dopo aver presentato dappertutto lo stesso complesso di sintomi, porta ovunque allo stesso esito.

    L'unica differenza tra le varie Nazioni consiste nel fatto che alcune sono ancora nel periodo di incubazione, altre invece hanno raggiunto l'ultimo stadio; le prime cominciano a soffrire per il male cui soccomberanno, le altre stanno morendo. Tale è oggi lo stato dell'Europa.

    Questa malattia, che è contagiosa, epidemica, unica, si compendia nella sollevazione universale di coloro che soffrono la fame contro i ricchi. Se si arriverà a un conflitto, V. M. non potrà aver dubbi sull'esito, ove consideri da una parte il numero degli affamati, e dall'altra quello degli abbienti.

    Sembrerà certamente a V. M., come sembra a me, stravaganza e follia credere che questa generale tendenza alla rivolta, che affligge tutti i Paesi e contemporaneamente tutte le classi indigenti, non derivi da una causa altrettanto generale. Poveri e ricchi sono sempre esistiti, nel mondo: ma finora non v'era mai stata una simile guerra, universale e simultanea, dei poveri contro i ricchi. Le classi povere, Maestà, si sollevano oggi contro quelle ricche perché la carità di queste verso quelle sì è raffreddata.

    Se i ricchi non avessero perduto la virtù della carità, Dio non avrebbe permesso che i poveri perdessero la virtù della pazienza. La perdita simultanea di queste due virtù cristiane spiega i grandi sconvolgimenti che turbano le società e le gravi scosse che il mondo sopporta. La pazienza non tornerà nel cuore del povero se la carità non tornerà nel cuore del ricco. Oggi, Signora, questa è la più imperiosa di tutte le necessità sociali; soddisfarla, o adoperarsi perché sia soddisfatta, deve essere oggi il compito più proprio e più nobile dei re. Non ignoro che l'augusta figlia di V.M., seguendo le orme della sua eccelsa madre, considera perduto quel giorno in cui non ha soccorso una sventura. E come potrei ignorarlo, avendo avuto la fortuna e l'onore di vedere coi miei stessi occhi nascere, crescere e rinvigorire nel suo nobile e gentile cuore la più pura e ardente carità? Ma non basta che io non lo ignori ne che gli sventurati che ella soccorre le sappiano; è necessario qualcosa di più, è necessario che lo sappia tutta la Nazione, e che non l'ignori l'Europa. Quando il Signore, rivolgendosi ai suoi discepoli, insegnò loro che conviene fare l'elemosina in modo che una mano non sappia ciò che ha dato l'altra, parlò così perché tra i suoi discepoli non c'erano re.

    Un re non è una persona privata, è una persona pubblica, la quale non fa il bene solamente per santificare se stesso, ma anche perché gli altri imparino col suo esempio a santificarsi.

    La nazione spagnola è perduta se non si argina con decisione la rovinosa corrente che trascina le classi ricche e le spinge tutte verso l'abisso.

    Questa, Signora, non è una vana declamazione. La Spagna è agli ultimi anni del regno di Luigi Filippo e alla vigilia del cataclisma di febbraio. Io chiedo che si faccia qui ciò che non si fece lì; un grande esempio dato dal trono alle classi ricche. Io chiedo che non ci siano feste : o. se debbono esserci, siano poche ed esclusivamente per i poveri; che invece di grandi e costosi ricevimenti per i ricchi, si facciano grandi elemosine, più grandi di quelle che furono elargite nei tempi passati, e più generose di quelle che si è stabilito di dare per seguire la tradizione, in favore dei bisognosi. Forse questo altissimo esempio di disinteresse e di virtù contribuirà a far retrocedere le classi ricche dalla cattiva strada su cui sono avviate, e a farle ritornare virtuose e disinteressate. In ogni caso, Maestà, se pure dovranno soccombere, almeno il Trono, seguendo la via che indico, potrà resistere felicemente all'impeto dei furiosi uragani. I poveri sono amici di Dio, e Dio non permetterà che cada un trono su cui è assisa una regina madre e amica dei poveri.

    Le Monarchie cristiane hanno raggiunto la prodigiosa durata di quattordici secoli solo perché Dio pose in esse una segreta e misteriosa virtù, in forza della quale si sono adattate, attraverso lente e progressive trasformazioni, al variato corso dei tempi. Quando ancora erano deboli tutti i vincoli sociali, la Monarchia si presentò ai popoli come un vincolo di forza.

    Quando gli insolenti baroni del feudalesimo mettevano a sacco le città, i popoli videro nei re il simbolo della giustizia. E poiché in entrambe le epoche le Monarchie seppero soddisfare tutte le necessità sociali, dapprima con la forza e poi con la giustizia, le nazioni, riconoscenti, giunsero progressivamente a fare dei propri sovrani dei re assoluti.

    Oggi, Maestà, comincia per i sovrani una nuova epoca, e guai a coloro che ne disconoscono i bisogni! Non si tratta ormai di unire con un vincolo forte varie tribù nomadi e guerriere, poiché le nazioni sono già definitivamente costituite. E nemmeno si tratta di togliere l'amministrazione della giustizia dalle mani di quegli insolenti baroni che chiamavano diritto il saccheggio e giustizia la vendetta; l'amministrazione della giustizia fu loro tolta per sempre e posta nelle mani dei tribunali incaricati di applicare rettamente e imparzialmente la legge. Oggi si tratta solo di distribuire convenientemente la ricchezza, che è molto mal distribuita. Questa, Signora, è l'unica questione che oggi si agita nel mondo. Se i governanti non la risolvono, ci penserà il socialismo e la risolverà mettendo a sacco le nazioni. Orbene: il problema non ha che una soluzione, buona, pacifica e conveniente.

    È necessario che la ricchezza, accumulata da un gigantesco egoismo, sia distribuita in elemosina su grande scala. Io ho ancora fede nelle Monarchie europee, e particolarmente in quella spagnola. Io non posso credere che nella presente occasione vengano meno, per la prima volta dopo tanti secoli cattolici, al mandato speciale che hanno ricevuto da Dio; e cioè di sopperire meglio e più compiutamente di qualsiasi altra istituzione, nella sua prodigiosa flessibilità, a tutte le necessità sociali. Non bisogna, tuttavia, abbandonarsi a pericolose illusioni. Il compito di re va facendosi ogni giorno più difficile e penoso; e ora più che mai può dirsi che regnare è un grandioso atto di abnegazione e un sublime sacrificio. Per regnare non basta essere forte e giusto; per essere veramente giusto e veramente forte è necessario essere caritatevole: e la carità, Signora, è la virtù dei santi. Solamente i santi possono oggi salvare le nazioni, che non hanno altra malattia, a guardar bene. se non la mancanza delle virtù cristiane. Dio permette la condannabile impazienza dei poveri per castigare l'insolente egoismo dei ricchi; e il colpevole egoismo dei ricchi per castigare i poveri, trascinati dalle loro condannabili impazienze.

    Postomi ormai a scrivere questa lunga lettera, non lascerò la penna se non dopo aver esposto a Vostra Maestà tutto il mio pensiero. Non sono così insensato da dare a ciò che propongo una importanza che non ha. Se la Monarchia spagnola è inferma (e lo è gravemente, senza alcun dubbio) la sua guarigione non le verrà certo perché la regina di Spagna, invece di dar feste, elargisce elemosine reali. - Non mi sfugge - e come potrebbe, essere altrimenti? - che tra quella malattia e questo rimedio non c'è la debita proporzione. La Monarchia non si salverà con l’essere splendida e generosa coi poveri in una occasione solenne; i ricchi non perderanno di colpo il loro egoismo perché la regina da loro l'esempio di una grandiosa munificenza in un giorno memorabile. Tutta l'importanza di questo magnifico esempio è che esso divenga un punto di partenza per una nuova epoca sociale e per un nuovo sistema di governo. Tutte le grandi istituzioni del Cattolicesimo sono lentamente venute meno, una dopo l'altra, sotto la spinta delle rivoluzioni: che tale esempio sia il punto di partenza della completa restaurazione in Spagna di tutte le istituzioni cattoliche.

    La rivoluzione ha scacciato dalla nostra legislazione politica ed economica lo spirito del cattolicesimo; che questo esempio sia il punto di partenza verso la completa restaurazione dello spirito cattolico (nella nostra legislazione economica e politica. Il diritto di parlare e insegnare alle genti, che la Chiesa ricevette dallo stesso Dio nelle persone degli apostoli, è stato usurpato, a danno della grandezza spagnola, da un branco di oscuri giornalisti e di ignorantissimi ciarlatani. II ministero della parola, che è allo stesso tempo il più augusto e il più invincibile fra tutti, dato che per esso fu conquistata la terra, ovunque s'è tramutato da ministero di salvezza in desolante ministero di rovina. Così come nulla e nessuno potè contenere i suoi trionfi nei tempi apostolici, nulla e nessuno potrà contenere oggi le sue distruzioni. La parola è stata, e sarà sempre la regina del mondo. La società perisce perché ha tolto alla Chiesa la sua parola, che è parola di vita. Le società sono sfinite e affamate da quando non ricevono da Essa il suo pane quotidiano. Ogni proposito di salvezza sarà vano se non verrà restaurata in tutta la sua pienezza la grande parola cattolica. L'ultimo concordato fu un eccellente punto di partenza per questa restaurazione, ma tale rimane, e nient'altro.

    Io non debbo nascondere a V. M. la verità, cioè che è necessario rimuovere e cambiare tutto, e non lasciare dell'edificio rivoluzionario pietra su pietra.

    In definitiva la rivoluzione è stata fatta dai ricchi per i ricchi, e contro i re e i poveri. Lascio tale dimostrazione da parte non perché sia difficile, ma solo troppo lunga. Mi contenterò solo di osservare che, per mezzo del censo elettorale i ricchi hanno relegato i poveri nel limbo sociale; e che, per mezzo delle prerogative parlamentari, hanno usurpato le prerogative della Corona. Saldi su questa posizione inespugnabile, si sono impudentemente divisi il bottino tratto dai conventi; vale a dire che, dopo aver reclamato il Potere esclusivamente per sé in qualità di ricchi, hanno fatto in qualità di legislatori una legge che raddoppia la loro ricchezza. Dal giorno della Creazione ad oggi, il mondo non ha mai visto un esempio più vergognoso di audacia e di cupidigia. Ciò serve, Maestà, a spiegare questi grandi e improvvisi scompigli a cui tutti guardiamo con occhi spaventati. Ciò che vediamo non è quello che crediamo di vedere, è un'altra cosa; è l'ira di Dio che passa, e al suo passaggio fa tremare le nazioni.

    Tra gli errori il più funesto è quello di affermare, come fanno alcuni, che questi timori sono prematuri in Spagna, perché in Spagna, non ci sono socialisti. Perché in Spagna non vi fossero socialisti sarebbe necessario che le medesime cause non producessero gli stessi effetti e che il socialismo non fosse una malattia contagiosa; sarebbe necessario, soprattutto, che la Spagna non fosse una società cattolica, perché il socialismo è un male che aggredisce inesorabilmente, e per un alto disegno di Dio, ogni società che essendo stata cattolica ha cessato di esserlo.

    Tale osservazione è nuova, ma Vostra Maestà mi permetta di dirle che è vera e profonda. Dio è misericordioso con coloro che lo seguono, blandamente giusto con coloro che lo ignorano, spietato con coloro che, conoscendolo, lo disprezzano; per questo pose nelle nazioni cattoliche i tabernacoli della sua gloria; per questo condannò le nazioni pagane agli eventi della loro alterna fortuna; per questo riserva il socialismo, la più grande delle catastrofi sociali, alle nazioni apostate. La Spagna, o tornerà ad essere cattolica o sarà infine socialista. Che dico? Sarà? Lo è già, Signora; solamente non pare che lo sia, perché essa stessa non lo sa. Il tisico è corroso dalla tubercolosi, anche se ignora il nome della sua malattia.

    In fondo al cammino che ora le ho indicato, e solo in fondo ad esso, sta la salvezza della Spagna e della sua gloriosa Monarchia. Che un Ministero resti o cada, che comandi il partito puritano o il conservatore, che il nome di qualcuno risplenda o si eclissi, che un generale sguaini la spada o la rinfoderi, che in questa lotta di Ministeri la fortuna sia per gli uni o per gli altri, tutto ciò non serve che a far cadere l'edificio con maggior fracasso e ignominia. Dio ha fatto le nazioni curabili; ma non sono gli intrighi, bensì i princìpi, quelli che hanno la divina virtù di curare le nazioni inferme.

    Vostra Maestà è degna di comprendere l'importanza di questi grandi princìpi. Vostra Maestà che non domanda, né può, né deve per norma generale intervenire nelle questioni di Stato, non può tuttavia. né vuole, né deve consentire a che la verità non si incammini verso le alte regioni politiche, e che lo Stato perisca miseramente.

    Nelle crisi supreme, e suprema è quella che attraversa l'Europa, non c'è nessuno che in date circostanze, e con la debita circospezione, non abbia il diritto, e fino ad un certo punto il dovere, di dire francamente e liberamente la verità con voce a un tempo stesso rispettosa e austera. Vostra Maestà è stata sempre così buona con me, che non ho esitato un solo istante ad esporle, e, sia pure debolmente, ciò che penso sulle cose di Spagna, di cui Vostra Maestà, per bontà e affetto, è protettrice e madre.

    Nello scrivere questa lettera non mi prefiggo un fine determinato; questa lettera è una conversazione che, senza la distanza, sarebbe stata verbale e non scritta. Nei mesi scorsi credetti di poter parlare con il duca; ma, privato di quest'ultima risorsa, ho deciso di scriverle questa lettera che pongo sotto la protezione della Sua benevolenza.

    Dio conceda a Vostra Maestà molti e felici anni di vita.
    Ai regali piedi della Maestà Vostra,

    JUAN DONOSO CORTES.

    NOTE

    * Maria Cristina dei Borboni di Napoli (1806-1878) fu reggente di Spagna dal 1833 al 1840. Alla morte di Ferdinando VII (1833), che modificando le norme della successione, aveva lasciato erede la figlia Isabella II, il fratello di lui, don Carlos, si levò a contrastare il trono alla piccola nipote e fu appoggiato dalla nobiltà, dal clero e da tutto l'elemento conservatore. La reggente, Maria Cristina (che aveva sposato morganaticamente in seconde nozze F. Munoz), cercò allora il favore dei liberali, concedendo nuovamente la costituzione e alleandoli con la Francia e con l'Inghilterra. Dopo fiera lotta tra "carlisti" e "cristini" don Carlos dovette esulare. Donoso Cortés fu uno dei consiglieri di Maria Cristina; i documenti conservati nell'archivio di Don Benito lo provano. Tuttavia, dopo la conversione del Cortés i rapporti con la regina andarono raffreddandosi, a misura che Donoso Cortés si allontanava dal liberalismo

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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    RISPOSTA AL SIGNOR DE BROGLIE


    Juan Donoso Cortés, Marchese di Valdegamas


    Parigi, 15 novembre 1852

    Stimatissimo signore,

    nel numero del 1 novembre della Revue des Deux Mondes è stato pubblicato un articolo pieno d'impegno, nel quale il signor Albert De Broglie entra in polemica con me su materie di altissima importanza. Anche se per istinto e convinzione sono poco portato a conversare con il pubblico, tuttavia ho creduto, in questa occasione, di non poter tacere, senza correre il pericolo di far ritenere avallati da me gravissimi errori.

    Questo non vuole dire che entrerò in discussione, né tanto meno che intavolerò una polemica con quell'insigne scrittore. Tutti quelli che mi conoscono sanno bene che ritengo pericolose le polemiche e vane le discussioni; per questa ragione posso affermare di me stesso, e facendolo do testimonianza alla verità, che ho discusso poche volte e mai disputato.

    Mi piace, non lo nego, e l'ho dichiarato altre volte, esporre semplicemente le mie opinioni; ma in generale non cerco né accetto la discussione, persuaso come sono che facilmente essa degenera in disputa, la quale finisce sempre per raffreddare la carità, accendere le passioni e indurre i contendenti a mancare a tre grandi doveri che ogni uomo ha verso gli altri uomini, verso la verità e verso se stesso. Le parole sono come le sementi: io le getto al vento e lascio che cadano come piace a Dio, secondo la sua volontà, o sulle rocce sterili o sulla terra feconda. Non volendo il mio animo né discutere né disputare, le scrivo questa lettera solo per contrastare alcuni errori di apprezzamento nei quali, contro la sua volontà, è incorso il signor Albert de Broglie nel brillante articolo che dedica, in parte, all'esposizione delle mie dottrine.

    Il primo consiste nell'affermare che io sono un idolatra del Medio Evo. Nell'Età Media ci sono molte cose: ci sono, da una parte, distruzioni di città, cadute d'imperi, lotte di razze, confusione di genti, violenze, gemiti; ci sono corruzioni, barbarie, istituzioni cadute e istituzioni nascenti; gli uomini vanno dove vanno i popoli, e questi ove altri vuole e loro non sanno; e c'è luce sufficiente per vedere che tutte le cose stanno fuori del loro posto e che non c'è posto per alcuna: l'Europa è il caos.

    Ma oltre al caos c'è un'altra cosa. C'è la Sposa immacolata del Signore, e c'è un grande evento, mai visto dalle genti: una seconda creazione, fatta dalla Chiesa. Nella Età Media non c'è nulla che mi sembri meraviglioso quanto la creazione, e nulla tanto degno d'adorazione quanto la Chiesa. Per operare il grande prodigio, Dio scelse quei tempi oscuri, eternamente famosi sia per l'esplosione di tutte le forze brutali, sia per la manifestazione dell'impotenza umana. Niente è più degno della Divina Maestà e grandezza che operare lì, dove uomini, popoli e razze, si agitano confusamente, e nessuno opera. Volendo Dio dimostrare in due grandi occasioni che solo la corruzione è sterile, e la verginità feconda, volle nascere da Maria e sposarsi alla Chiesa; e la Chiesa fu madre di popoli, come Maria madre di Cristo.

    Si vide allora quella Vergine Immacolata adoperarsi come il suo divino Sposo, a sollevare gli animi dei caduti e a moderare l'impeto dei violenti, distribuendo agli uni il pane dei forti e agli altri il pane dei mansueti. Quei feroci figli del polo, che umiliarono e schernirono la maestà romana, caddero presi d'amore ai piedi dell'inerme Vergine; e tutto il mondo vide, attonito e stupito, per molti secoli, rinnovato dalla Chiesa, il prodigio di Daniele uscito incolume dalla fossa dei leoni.

    Dopo aver amorosamente calmato quelle grandi ire, dopo aver rasserenato con un solo sguardo quelle tempeste furiose, si vide la Chiesa trarre fuori un monumento da una rovina, una istituzione da un costume, un principio da un fatto, una legge da una esperienza; e, per dirlo brevemente, l'ordine dal caos, l'armonia dalla confusione. Senza dubbio tutti gli strumenti della sua creazione, ed il caos medesimo, esistevano già nel caos; ma essa dette loro la forza vivificatrice e creatrice. Nel caos c'era, come in embrione, tutto ciò che doveva essere e vivere. Nella Chiesa, priva di tutto, non vi era se non l'essere e la vita; ma tutto fu, ed ebbe vita, quando il mondo ascoltò attento le sue amorose parole e guardò la sua risplendente bellezza.

    No, gli uomini non avevano visto una cosa simile perché non avevano assistito alla prima creazione, né torneranno a vederla, perché non ci saranno tre creazioni. Si direbbe che Dio, pentito di non aver fatto l'uomo testimone della prima, abbia permesso alla sua Chiesa la seconda creazione solo perché l'uomo potesse vederla.

    Il secondo errore sta nel supporre che io consigli alla Chiesa un dominio universale e assoluto. Io non ho mai avuto, e mai l'avrò, la superba e insensata pretesa di consigliare Colei che ascolta e segue i consigli dello Spirito Santo. Ho gettato uno sguardo intorno a me ed ho visto le società civili inferme e decadute, e tutte le cose umane confuse e sconvolte; ho visto le nazioni ubriache con il vino della sedizione, e la libertà assente dalla terra; ho visto i tribuni incoronati, e i re senza corona.

    Giammai gli uomini hanno presenziato a cosi grandi mutamenti e rovesci, a così prodigiosi alti e bassi della fortuna.

    Nel vedere tutto ciò ho chiesto a me stesso se tutta questa confusione, e questo sconvolgimento, e questo disordine, non provengano per caso dall'oblio in cui sono caduti quei princìpi fondamentali del mondo morale, dei quali è pacifica depositaria ed unica posseditrice la Chiesa di Gesù Cristo. Il mio dubbio si è convertito in certezza nell'osservare che solo la Chiesa oggi offre lo spettacolo di una società ordinata; che essa sola sta quieta in mezzo a questi tumulti; che essa sola è libera, perché in lei il suddito obbedisce amorevolmente all'autorità legittima, che a sua volta comanda con giustizia e moderazione; che essa soltanto è feconda di grandi cittadini, che sanno vivere da santi e morire da martiri.

    Ed alla vista di questo grande spettacolo ho detto alla società civile: "Tu sei derelitta e povera, e la Chiesa ricchissima: chiedile ciò che li manca, ed essa non te lo negherà, perché la sue mani sono piene di grazia ed il suo cuore colmo di misericordia. Cerchi l'ordine? Chiedine il segreto a chi è ben ordinata. Cerchi la libertà? Imparala nella scuola di Colei che è libera. Cerchi il riposo? Lo troverai solo nella Chiesa, e mercé la Chiesa, che ha la meravigliosa virtù di rasserenare tutto, e dare pace agli animi. Cerchi la nozione cristiana dell'autorità pubblica? Studia le grandi opere dei suoi grandi Pontefici. Cerchi il segreto delle gerarchie sociali? Chiedilo alla gloriosa moltitudine dei suoi vescovi e dei suoi patriarchi. Cerchi il segreto della dignitosa obbedienza e della dignità obbediente? Chiedilo alla nobilissima falange dei suoi sacerdoti. Vuoi essere feconda di figli che vivono e muoiono per la loro patria? Chiedile il segreto della santificazione e quello del martirio".

    Come si vede, non si tratta qui di accertarsi se la supremazia corrisponde al sacerdozio o all'Impero.

    Si tratta solamente di accertare se conviene o no alla società civile di prendere dalla Chiesa i grandi princìpi dell'ordine sociale, e se le conviene o no essere cristiana. Il grande peccato di questi tempi mi sembra consista nel vano intento delle società civili di formare per loro proprio uso un nuovo codice di verità politiche e di principi sociali; nel vano intento di sistemare le proprie cose attraverso concezioni puramente umane, facendo una assoluta astrazione delle concezioni divine. I governanti delle società civili hanno detto: "Dividiamo la creazione in tre imperi indipendenti. Il cielo sarà di Dio, e vi si concentreranno le divine concezioni: il Santuario della Chiesa, e vi si raggrupperanno le concezioni religiose; l'uomo impererà su tutto quello che c’è tra il santuario e il cielo, ed in questo vastissimo impero tutto si ordinerà attraverso le concezioni umane".

    Da qui quella grande esplosione di attività intellettuale per la quale l'uomo ha tentato di uguagliarsi da una parte alla Chiesa e dall'altra a Dio, e di elevare le sue concezioni al livello altissimo delle concezioni religiose e divine. Di qui il ritorno all'idolatria della propria grandezza, la più pericolosa di tutte, perché satanica. Da qui questo culto che le genti hanno verso gli uomini che con il loro ingegno hanno conquistato un trono nelle sfere intellettuali.

    Da qui questa fiducia insensata dell'uomo negli altri uomini e in se stesso, che mi fa fremere per la sua imperturbabilità, anche dinanzi al naufragio universale di tutti i suoi vani pensieri e di tutte le sue vane illusioni.

    Contate uno per uno, se potete, i fallimenti e le catastrofi dei nostri giorni, ed osserverete, pieni di stupore, che l'orgoglio è sempre punito con catastrofi ed è sempre causa di fallimenti. Dio suscita i tiranni contro i ribelli, ed i popoli ribelli contro i tiranni; è Lui che castiga l'orgoglio con un altro orgoglio, fino a che rimane soltanto il più grande, la cui umiliazione ha riservato a se stesso.

    Le società dei nostri tempi, tornate all'infanzia, avevano finito per credere che avrebbero potuto evitare gli sguardi di Dio tappandosi gli occhi per non vederlo. Vano intento! Dio è venuto loro incontro da tutte le direzioni e ha tagliato loro il passo in tutte le strade.

    Ed era veramente molto difficile non incontrare mai in alcuna parte Colui che vive in tutte le parti dall'eternità.

    Come la sottomissione ai precetti divini non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la istituzione di un Governo teocratico, così il riconoscimento, in teoria e in pratica, delle verità fondamentali di cui è depositaria la Chiesa, non porta con sé, né esplicitamente né implicitamente, la sua dominazione negli affari temporali. La Chiesa giammai ha confuso queste due cose, così differenti fra loro. Per questa ragione, mentre cerca e chiede per i suoi dogmi, ed anche per i suoi princìpi, l'impero del mondo, perché questo non può sussistere senza sottomettersi a quelli, ha mostrato non solo indifferenza, ma orrore, ad ingerirsi nella direzione temporale delle cose umane.

    Ci fu un tempo in cui l'Italia, abbandonata dai suoi imperatori e dai suoi capitani, e inondata dal diluvio dell'invasione, mise lo scettro, la corona e la porpora ai piedi dei suoi Pontefici, salutandoli pii, felici, trionfatori, come In altri giorni i suoi Cesari. La Chiesa tuttavia, e la Storia lo dice, ricevette il saluto popolare come Maria aveva ricevuto il saluto evangelico. Quae cum audisset, turbata est in sermone eius. Né le lodi angeliche né i clamori popolari poterono insuperbire l'umile madre e sposa di Colui che il profeta chiama ludibrio delle genti e uomo dei dolori. Quando, coll’andare dei tempi, vediamo questi stessi Pontefici definire le lotte tra i popoli ed i re (fuori dei casi di aperta rivolta), piuttosto come padri amorosi che come giudici inesorabili, non bisogna chiedere loro perché esercitino quell'altissimo ministero e quel sovrano arbitrato. Ai re ed ai popoli tocca dire quale fu la forza invincibile e il poderoso istinto che li mosse a rivolgersi, per ottenere giustizia e pace, agli unici che allora erano sulla terra pacifici e giusti.

    A noi tocca affermare senza tema di essere smentiti, che senza quella suprema giurisdizione. conferita per consenso universale alla Chiesa. l'Europa e la civiltà sarebbero perite insieme. Consci come siamo tutti, dei danni che possono operare le rivoluzioni e le tirannie in questi tempi in cui non c'è braccio che non sia debole né volontà che non vacilli, non ci può essere difficile calcolare le gigantesche catastrofi che sarebbero cadute sull'Europa se la Chiesa non fosse stata una diga, in quei tempi violentissimi, contro lo straripamento delle grandi tirannici; e contro il furore delle grandi rivoluzioni.

    Comunque sia, l'epoca memorabile ed eccezionale della sua gloriosa dittatura sul popolo cristiano è ormai passata, simile sotto diversi aspetti a quella che Dio ha personalmente e direttamente esercitato sul popolo giudeo. Oggi tutte le cose sono tornate al loro stato normale; e nello stato normale delle cose la Chiesa non opera sopra la società che attraverso una influenza segretissima, così come Dio opera sull'uomo segretamente e tacitamente attraverso la sua grazia.

    Questa meravigliosa analogia tra la maniera di operare della Chiesa sulla società e di Dio sull'uomo è una prova di più della straordinaria semplicità che Dio pone nei suoi mezzi e dell'inconcepibile profondità ed estensione che dà ai suoi disegni.

    Tuttavia, lasciando da parte le importanti e curiose osservazioni che si potrebbero trarre da questa meravigliosa analogia, non permettendolo i ristretti limiti di una lettera, mi accontenterò di osservare che tra Dio e la Chiesa c'è un'altra somiglianza, e cioè che entrambi amano esser sopraffatti dall'uomo.

    Dio è conquistatore solo di quelli che, sollecitati dalla sua grazia, conquistano il cielo, e la Chiesa è conquistatrice soltanto di quelli che, vinti dalla sua influenza, conquistano violentemente il suo santuario. Che le nazioni cristiane entrino da padrone nella Chiesa; che si vestano con le sue spoglie divine; che mangino il suo pane fino a saziare la loro fame; che bevano tutte alle sue fonti sorgive fino a dissetarsi; questo è ciò che io chiedo, ciò che Essa vuole, ciò che io intendo per dominio della Chiesa.

    Veniamo ora all'accusa più diffusa e, sotto un certo aspetto, più grave: consiste nell'affermare che io aspiro ad inculcare negli animi la necessità di una restaurazione del Medio Evo.

    Nell'Età Media vi sono da considerare due cose: quei fatti, quei princìpi e quelle istituzioni che ebbero origine nella civiltà propria di quell'età; e quei fatti, quei princìpi e quelle istituzioni che, sebbene realizzati allora, sono la manifestazione esteriore di certe leggi eterne, di certi princìpi immutabili e di certe verità assolute. Io condanno all'oblio tutto ciò che gli uomini istituirono in quella Età perché passasse con quella Età e con quegli uomini, e reclamo con insistenza la restaurazione di tutto ciò che, come fu tenuto per certo in quella Età, è certo perpetuamente.

    Il catalogo di ciò che bisogna lasciare e di ciò che bisogna prendere nell'Età Media riempirebbe le pagine di questa Rivista, e la dimostrazione dell'esattezza di quel catalogo basterebbe a riempire alcuni volumi. Avendo in animo, nello scrivere questa lettera, di esporre piuttosto che dimostrare le mie dottrine, per evitare che mi si attribuiscano quelle che non ho, basterà per il mio proposito dare un'idea sommaria di quello che vorrei vedere restaurato nell'ordine politico.

    Una cosa richiama vivamente la mia attenzione nell'Età Media, ed è la sua costante tendenza, anche se quasi sempre infruttuosa, a costituire la società e il Potere conformemente ai princìpi che formano come il Diritto pubblico delle nazioni cristiane; così mi spaventa la tendenza della società attuale a costituire se stessa e il Potere pubblico conformemente a certe teorie ed idee che porterebbero i popoli, attraverso cammini sconosciuti, fuori dalle vie cattoliche. Il risultato finale di quella felice tendenza fu la costituzione della Monarchia ereditaria; il risultato delle tendenze presenti sarà infallibilmente la realizzazione di un Potere demagogico, pagano nella sua costituzione, e satanico nella sua grandezza.

    L'avvento di questo Potere colossale potrà essere ritardato dall'incoscienza degli uomini e dalla misericordia divina; ma se la società non muta direzione, il suo avvento in un futuro non molto lontano, nonostante i venti contrari che oggi regnano in Europa, mi sembra inevitabile.

    Io mi propongo di esporre qualche cosa, delle molte che potrei dire, intorno agli opposti princìpi che sopra la costituzione del Potere e della società sono come l'anima di queste contrarie tendenze.

    C'è una legge sovrana che Dio ha imposto al mondo: in virtù di questa legge, è necessario che l'unità e la varietà, che sono nello stesso Dio, si trovino, in un modo o nell'altro, in tutte le cose. Perciò l'insieme di tutte le cose porta il nome di universo, parola che, scomposta, vuol dire unità e varietà unite in uno. Nella società l'unità si manifesta attraverso il Potere, e la varietà attraverso le gerarchie; ed il Potere e le gerarchie, come l'unità e la varietà che rappresentano, sono inviolabili e sacre, come la loro coesistenza è allo stesso tempo il compimento della legge di Dio e la garanzia della libertà del popolo.

    La Monarchia ereditaria, così come è esistita nei tempi che passarono tra la Monarchia feudale e l'assoluta, è l'istituzione più perfetta e compiuta del Potere politico e delle gerarchie sociali. Il Potere era uno, perpetuo e limitato: uno nella persona del re, perpetuo nella sua famiglia, limitato perché dovunque trovava una resistenza materiale in una gerarchia organizzata. Le assemblee di quei tempi non furono mai un Potere. Quando la Monarchia, senza essere assoluta, fu tuttavia forte, quelle furono una diga, e niente più; ai tempi della debolezza dei troni furono un campo di battaglia. Coloro che hanno voluto vedere in esse l'origine dei Governi parlamentari, ignorano ciò che è un Governo parlamentare e non sanno qual è la sua origine. Indicherò più avanti ciò che costituisce la sostanza di questo Governo, e quale è la sua origine.

    A questa Monarchia, che non esito a qualificare il più perfetto di tutti i possibili Governi, è succeduta, con il volgere dei tempi, la Monarchia assoluta, ed il suo avvento ha coinciso con due avvenimenti memorabili: con la restaurazione del paganesimo letterario e con l'insurrezione religiosa.

    La civiltà moderna non poteva venire al mondo sotto auspici più tristi. Guardatela bene, e vedrete che questa civiltà non è altro, nell'ordine religioso, politico, e morale, che una costante decadenza.

    La Monarchia assoluta ebbe questo di buono, che conservò l'unità e la continuità del Potere; ebbe di cattivo che soppresse e disprezzò le resistenze e le gerarchie, violando così la legge di Dio. Un Potere senza limiti è un Potere essenzialmente anticristiano, ed un oltraggio alla maestà di Dio e alla dignità dell'uomo. Un potere senza limiti non può essere mai né un ministero, né un servizio; e il Potere politico, sotto l'impero della civiltà cristiana, non è altro che questo. Il Potere senza limiti è, d'altra parte, una idolatria, così nel suddito come nel re: nel suddito perché adora il re, e nel re perché adora se stesso.

    Nelle rovine monumentali d'Egitto non è raro trovare insieme due statue che rappresentano una medesima persona: una di esse nell'atto di adorare e l'altra nell'atto di essere adorata. Ciò significa che Ramses re è in adorazione di Ramses dio. Queste due statue potrebbero simbolizzare le nostre Monarchie assolute, se gli uomini del nostro tempo avessero il genio simbolico degli Egizi. Cosa si può sperare da una civiltà che restaura la civiltà dei Faraoni quando può avere a modello la Monarchia cristiana!

    Il parlamentarismo ha la sua origine in una reazione contro la Monarchia assoluta. Io non conosco nella Storia una reazione più funesta. La Monarchia assoluta, che è la negazione della Monarchia cristiana in una delle sue condizioni fondamentali, è, tuttavia, l'affermazione di questa stessa Monarchia in due delle sue condizioni essenziali. Il parlamentarismo la nega in tutta la sua essenza ed in tutte le sue condizioni.

    La nega nella sua unità, perché converte in tre ciò che è uno con la divisione dei Poteri; la nega nella sua perpetuità, perché pone il suo fondamento in un contratto, e nessuna potestà è ammissibile se le sue basi sono variabili; la nega nella sua limitazione, perché la trinità politica nella quale la potestà risiede, o non opera per impotenza, infermità organica causata dalla divisione, o opera tirannicamente, non riconoscendo fuori di sé ne trovando intorno a sé alcuna resistenza legittima. Per ultimo, il parlamentarismo, che nega la Monarchia cristiana in tutte le condizioni della sua unità, la nega nella sua varietà e in tutte le sue condizioni, mercé la soppressione delle gerarchie sociali.

    Questa soppressione è, in primo luogo, un fatto. Dove il parlamentarismo prevale, lì vanno scomparendo le corporazioni e tutte le gerarchie, senza lasciare nessuna traccia né memoria di sé. In secondo luogo, è un principio. Infatti, secondo la teoria parlamentare, non bisogna ammettere nessuna influenza tra il re e le assemblee deliberanti, se non quella dei ministri, che sono i suoi ambasciatori; né tra il Parlamento e le masse, se non quella del corpo elettorale, aggregazione arbitraria e confusa che si forma ad un segnale convenuto e che, ad un altro segnale, si scompone, mentre i suoi membri restano dispersi fino a che torni a risuonare la voce che ordini loro di riunirsi.

    Debbo ripeterlo: io non concepisco una negazione più radicale, più assoluta, più completa, di quella legge che impone l'unità e la varietà a tutte le cose, e le sue condizioni speciali a ciò che è vario ed a ciò che è uno; così come non concepisco una affermazione di tale legge, più bella e solida di quella che il Medio Evo, ispirato dal genio cattolico, trovò al termine del suo affannoso cammino nella monarchia cristiana.

    Da ciò che si è detto si vede quanto grande sia l'errore di coloro che, paragonando il parlamentarismo con il socialismo, credono che questo sia una negazione estrema e quello una negazione mitigata. La differenza tra l'uno e l'altro non è nel radicalismo della negazione, dato che entrambi negano tutto e radicalmente, bensì è nel fatto che, mentre l'uno nega tutto nelle sfere politiche, l'altro porta la sua negazione fino nelle sfere sociali.

    Considerando soltanto le apparenze e le forme, il parlamentarismo dei nostri giorni ha modelli ed antecedenti in tutti i tempi ed in tutte le parti. Li ha in Inghilterra, dove si governa tutto attraverso due Camere d'accordo con la Corona; li ha nei tempi passati in tutte le nazioni europee, dove il clero, la nobiltà e le città erano chiamati a deliberare sugli interessi pubblici. Ma se, lasciando da parte le apparenze e le forme, andiamo diritti all'intima e profonda sostanza della questione, se insistiamo perché queste forme, identiche tra loro, ci rivelino lo spirito nascosto che le anima, troveremo che il parlamentarismo che anni addietro prevalse nel continente è una cosa nuova nel mondo, senza che sia possibile trovare né il suo antecedente ne il suo modello nella Storia.

    Se, incominciando dalla Costituzione britannica; ci mettiamo ad esaminare non solo la sua organizzazione esterna ma anche, e principalmente, la sua struttura interna prima delle ultime riforme, troveremo che lì la divisione del Potere ha mancato sempre di ogni realtà, essendo solo una vana apparenza. La Corona non era un Potere, nemmeno una parte costitutiva del Potere: era il simbolo e l'immagine della nazione, la quale, incoronando il re, incoronava se stessa. Essere il re non significava né regnare né governare: era, puramente e semplicemente, ricevere adorazioni. Questo stato passivo della Corona esclude di per sé l'idea del Potere e del Governo, incompatibile con l'idea di una perpetua inazione e di un perpetuo riposo. La Camera dei Comuni non era altro, nella sua composizione e nel suo spirito, che la sorella minore della Camera dei Pari. La sua voce non era una voce, ma un'eco. La Camera dei Pari era, con questo modesto titolo, il vero, l'unico potere dello Stato. L'Inghilterra non era una Monarchia, ma una aristocrazia, e questa aristocrazia era un Potere uno, perpetuo e limitato : uno, perché risiedeva in una persona morale, animata da un solo spirito; perpetuo, perché questa persona morale era una classe dotata, per la legislazione, dei mezzi necessari per vivere perpetuamente; limitato, perché la Costituzione, le tradizioni e i costumi l'obbligavano ad adattarsi in pratica alla modestia del titolo.

    Da ciò che è stato detto si vede come la nazione inglese ha sempre riconosciuto, nella pratica della sua costituzione, le condizioni essenziali, e come tali divine, del Potere pubblico; condizioni che sono implicitamente o esplicitamente negate da ciò che nel continente porta il nome di Governo parlamentare. Le riforme introdotte nella Costituzione inglese in questi ultimi tempi sono una vera rivoluzione colma di catastrofi. La Provvidenza, che si compiace di confondere la sapienza dei saggi e la prudenza dei prudenti, ha permesso che l'Inghilterra sia conquistata dal nostro parlamentarismo, nello stesso momento in cui aveva ritenuto di averci conquistato con le sue istituzioni. Questa conquista dell'Inghilterra da parte dello spirito continentale sarà il grande argomento di meditazione delle generazioni future e degli storiografi che verranno, a meno che, per uno sforzo gigantesco del buon senso, che ha sempre prevalso in quella bella e potentissima razza, non riesca ad espellere il molesto ospite che si è introdotto nella sua casa.

    Per quel che riguarda le assemblee, che con differenti titoli anche se con uguale scopo, si costituirono nell'Età Media per deliberare negli affari pubblici, è impossibile trovare nella loro originale e pittoresca fisionomia le caratteristiche delle nostre assemblee deliberanti.

    Nell'Età Media, considerata dal punto di vista che ci interessa, bisogna distinguere due periodi storici: il primo, e il più lungo, è quello della nascita vigorosa, spontanea, ma disordinata e confusa, delle grandi forze sociali; il secondo è quello in cui queste forze si subordinano le une alle altre ed in cui prevalgono definitivamente nella società le nozioni della gerarchia, dell'ordinamento, della giustizia e del diritto. Il primo di questi due periodi storici affronta e circoscrive un grande problema che tenta invano di risolvere, mentre è il secondo che ne trova la soluzione. Il problema era di trovare il modo di fare uscire il diritto dalla forza, trasfigurandola in autorità legittima. A questo grande e unico fine si indirizzano i giganteschi sforzi della società in quegli agitatissimi tempi.

    La soluzione di questo problema era oltretutto difficile e scabrosa in una Età in cui, essendo molte le forze, tutte aspiravano al principato. Da ciò quelle alleanze interessate ed effimere, quelle scorrerie devastatrici, quei saccheggi sanguinosi, quelle ostilità senza risultato e senza scopo, quella inquietudine diffusa in tutti gli animi, quella instabilità di tutte le condizioni e di tutte le cose. II Trono non è abbastanza alto per dominare il castello feudale; e mentre questo si veste di ferro per resistere al Trono, l'umile Comune scende ai piedi della collina per combatterlo ed emanciparsi. C'erano due mezzi per uscire da tale situazione: vincere o venire a patti, combattere o intendersi. Questo spiega perché, vista la sterilità delle contese, le genti di quella Età scelsero istintivamente il mezzo delle transazioni. Le assemblee furono appunto il mezzo di transazione, così come le guerre civili furono il mezzo per arrivare ad una soluzione attraverso una vittoria. Ma era scritto che tutto dovesse avere un risultato opposto a quello che speravano; perché dalle assemblee, mezzo di transazione, spesso nacque la guerra, come dalle contese civili, cominciate e proseguite con l'intento di trionfare, nacquero spesso transazioni.

    Venendo al paragone tra l'indole, lo spirito ed il proposito delle assemblee di quei tempi ed il proposito, lo spirito e l'indole di quello dei nostri giorni, troveremo che sono non soltanto differenti tra loro, ma del tutto opposte. In effetti, quelle apparvero in tempi in cui la società cercava da tutte le parti un Potere senza trovarlo, e gli uomini si riunirono in assemblee solo per tentare se con questo nuovo mezzo potevano trovare ciò che cercavano. Al nostri giorni avviene tutto il contrario, perché la società è governata da un Potere già organizzato e costituito, ed i rappresentanti del popolo si organizzano solo per eliminarlo attraverso una trasformazione che lo distrugge. In mezzo al disordine universale il Medio Evo si rivolge infruttuosamente ma costantemente, con una inclinazione invincibile, e come obbedendo alla legge di gravitazione, verso la costituzione cristiana del Potere, fine di tutte le aspirazioni legittime, centro di tutte le gravitazioni sociali. In mezzo all'ordine universale ed all'universale armonia, le società moderne, come corrose da una segreta inquietudine e da un male oscuro nelle sue cause, misterioso nella sua essenza e satanico nei suoi risultati, fuggono il tedio e il riposo, e, abbandonandosi alla mercé di tutte le forze centrifughe, cercano non so quale centro in un so quali abissi. Ciò avviene perché il Medio Evo, anche se in mezzo alla disarmonia totale, era dominato dal principio cattolico; mentre le società moderne, anche se in mezzo all'ordine materiale, sono dominate dallo spirito rivoluzionario. Era il principio cattolico che nell'Età Media traeva il bene dal male; ad esso furono dovute, in quei tempi oscuri, tutte le tendenze salutari; mentre dallo spirito rivoluzionario hanno origine tutte le nostre tendenze distruttrici.

    L'uno e l'altro hanno prevalso in queste due grandi epoche con un dominio assoluto. Sarebbe stato impossibile riunire allora una assemblea che da qualche lato non fosse stata cattolica, come sarebbe impossibile oggi riunire un'assemblea che non fosse da qualche lato rivoluzionaria.

    Mi sembra che Albert de Broglie cada in una grande illusione quando propone al cattolicesimo una alleanza con la libertà, bel frutto, anche se un po' acerbo, della civiltà presente, La sua illusione nasce da due errori, dal credere che il cattolicesimo e la libertà siano cose che per stare insieme abbisognino di trattati e di alleanze, e che la civiltà attuale e la libertà siano una stessa cosa.

    La verità è che, lì dove il cattolicesimo domina, l'uomo è libero, e che il genio che presiede allo sviluppo e alla crescita della civiltà attuale non è il genio della libertà, ma quello delle rivoluzioni. Non nego che ci siano spiriti nobili e generosi, come quell'illustre scrittore, che innalzano al cielo le loro proteste in nome della libertà vinta ed umiliata; ma affermo che questi nobili condottieri di una causa nobile, chiedendo la libertà, chiedono esattamente alla civiltà ciò che ad essa ripugna, e alla loro epoca ciò che essa non può dar loro. Due volte hanno tentato di instaurarla: la prima, per mezzo dell'iniziativa reale; la seconda, per mezzo dell'iniziativa parlamentare. La rivoluzione del 1830 venne a chiedere conto alla Monarchia di ciò che aveva fatto, e distrusse la Monarchia, esiliando il re e la famiglia reale. Il 24 febbraio una frenetica demagogia venne a chiedere conto alla Camera attonita dell'iniziativa che essa aveva preso.

    Quando vedo la Monarchia legittima tra la prima rivoluzione e quella del 1830, e la Monarchia di luglio tra la rivoluzione del 1830 e quella del 1848, chiedo a me stesso se chiamare libertà ciò che sta tra queste due rivoluzioni non sia la stessa cosa che chiamare libero l'uomo che sta tra due gendarmi. Gendarmi e rivoluzioni: questa è l'unica cosa che vi ha dato e che vi prepara l'epoca che chiamate vostra e la civiltà che ammirate.

    Tornando a riallacciare il filo del mio discorso, dirò che se tra le assemblee moderne e quelle dell'Età Media, nel loro periodo anarchico, non è possibile trovare punti di contatto o relazioni, è ancora più impossibile trovare alcun genere di somiglianza tra le assemblee che .fiorirono quando il potere reale era già cresciuto, ed era robusto, e le assemblee attuali. E infatti, la loro differenza essenziale salta agli occhi. Le prime non erano altro che una forza sociale, vale a dire che, considerate in rapporto al Potere pubblico, il quale risiedeva esclusivamente nel re, formavano una resistenza organica ed un limite naturale alla sua espansione indefinita. Le assemblee attuali, che non sempre sono una forza né un limite, costituiscono sempre un Potere nello Stato, e, quel che è peggio, un Potere in lotta ed in concorrenza perpetua con gli altri Poteri. Non è possibile alcuna illusione; cercare una qualsiasi somiglianza tra queste due istituzioni mi sembrerebbe una forma molto singolare di pazzia.

    Ed ora domando: se il nostro parlamentarismo non ha origine dall’Età Media né dal parlamentarismo della Gran Bretagna dov'è la sua ragione di essere e da dove ha avuto origine?

    Il nostro parlamentarismo ha origine esclusivamente nello spirito rivoluzionario, che è lo spirito proprio della civiltà moderna, o per meglio dire, lo spirito rivoluzionario stesso considerato nella sua prima evoluzione. Questo serve a spiegare perché esso va, naturalmente, diritto contro il Potere e perché, per essere sicuro di ucciderlo, comincia con il dividerlo.

    No, il parlamentarismo non è ispirato dalla libertà. Se così fosse, cercherebbe la limitazione del Potere e avrebbe in orrore la sua divisione, che è poi il suo annientamento. Se cosi fosse, rispetterebbe nel Potere la sua augusta unità e la sua santa perpetuità. Se il parlamentarismo fosse la libertà, rispetterebbe le gerarchie sociali, queste robuste cittadelle dalle quali i popoli liberi difendono contro i tiranni la loro libertà. Chiedere la libertà al parlamentarismo è chiederla alla rivoluzione, e la rivoluzione non ha mai portato nelle sue sterili viscere la libertà, figlia del cielo e consolazione della terra. Il parlamentarismo, sopprimendo le gerarchie, che sono la forma naturale, e per conseguenza divina, di ciò che è vario, e togliendo al Potere quello che ha di indivisibile, che è la condizione divina, naturale e necessaria di ciò che è uno, si pone in aperta ribellione contro Dio, in quanto è creatore, legislatore e conservatore delle società umane. In tale stato di ribellione permanente, è obbligato a trovare la soluzione di un gran problema sotto ogni punto insolubile. Il problema consiste nel cambiare con i suoi sforzi la natura intrinseca delle cose, in modo tale che possano sottomettersi e si sottomettano all'impero delle idee umane, e che possano sottrarsi e si sottraggano all'impero delle leggi generali ordinarie, stabilite dall'intelligenza divina. Il suo intento è di rinnovare, nell'ordine politico e sociale, la guerra dei Titani, guerra seguita dalla stessa fine e dalle stesse punizioni; per scalare il cielo mettono invano un monte sopra un altro monte, Ossa su Pelio, Pelio su Ossa. II fulmine toccherà la fronte del titano prima che la sua mano empia possa toccare la cima.

    Ho detto che il problema è grande e insolubile. La sua grandezza serve per spiegare la magnifica fioritura di forze intellettuali che si osservano sempre nei Governi parlamentari. L'uomo sente istintivamente che dinanzi ad essi è solo e che per non perire deve compiere prodigi; per continuare nella sua impresa è necessario che sia a un tempo stesso Dio e uomo: Dio, per mutare le cose e le sue leggi; uomo, per applicare le nuove leggi alle cose nuove. È legge del mondo morale che la divisione generi la discordia e che questa sfoci nella guerra. Il parlamentarismo sconvolgerà il mondo morale, le sue condizioni e le sue leggi; compirà la divisione, e in essa collocherà i tabernacoli della pace, attraverso una legge che Dio aveva indicato e che si chiama legge di equilibrio. La discordia, perduto ad un tempo il suo nome e la sua natura, si chiamerà vita: e, governata dai moderni taumaturghi, si trasformerà in movimento ordinato ed in agitazione salutare. La soppressione delle gerarchie sociali porta con sé, secondo l'ordine stabilito da Dio, l'uguaglianza nell'anarchia comune e nella comune servitù. Da oggi in poi, tutto in un altro modo: l'uomo, invece di trarre il somigliante dal somigliante, l'analogo dall'analogo, l'identico dall'identico, trarrà il contrario dal contrario. In virtù di questa nuova legge egli trarrà dall'eguaglianza che cerca uno stesso livello, la libertà che, essendo una disuguaglianza ed un privilegio, cerca livelli distinti. Dio aveva voluto che gli uomini potessero scegliere tra l'essere liberi, o uguali: l'uomo concepirà un intento più alto, e correggendo l'opera imperfetta di Dio, farà i suoi fratelli di colpo, uguali e liberi.

    Come la grandezza del problema che si tratta di risolvere spiega sufficientemente il grandioso fiorire delle intelligenze nei Governi parlamentari, così questo stesso fiorire delle intelligenze spiega tanti altri fenomeni. Sotto l'impero del parlamentarismo, l'ingegno, strumento atto a risolvere il grande problema, è tutto, ed il resto è nulla; da qui l'idolatria dell'ingegno in cui stanno cadendo, una dopo l'altra, tutte le nazioni. Supposta questa idolatria, non c'è nulla di più ragionevole del fatto che tutti aspirino ad essere sapienti per essere adorati: da ciò uno spaventoso disordine nelle vocazioni individuali. Tutti devono prendere la medesima strada e tutti devono essere i primi sulla strada comune.

    Supposto quest'ordine di cose e questo genere di aspirazioni e di impulsi, si osservi ciò che infallibilmente accadrà. Tutte le cose umane perdono subitamente la loro sicurezza ed il loro equilibrio. Più sono in auge le intelligenze, più sono svalorizzati i caratteri morali: segno infallibile di decadenza. Nessuno sa dire, in mezzo al generale squilibrio e all'universale sconcerto, se il mondo è in guerra o in pace.

    Da una parte c'è troppa agitazione e troppa inquietudine perché questo stato di cose meriti il bel nome di pace; dall'altra, non si scorge in nessun luogo quell'apparato bellico, quegli ordinati tumulti, quei grandi movimenti e quelle grandi evoluzioni di gente armata che porta con sé la guerra. Il mondo sta quasi sui confini di queste due grandi cose: non è in pace perché gli animi sono inquieti, non in guerra perché le braccia stanno ferme; si trova in uno stato permanente di discordia e di disputa, la quale, senza essere la pace degli uomini, è la guerra tipica delle donne. Per essere pace le manca ciò che essa ha d'invidiabile e di augusto, la tranquillità inalterabile degli animi, e per essere guerra le manca ciò che essa ha di fecondo e di espiatorio, cioè il sangue. Il parlamentarismo, trasportando la guerra dal campo di battaglia alla tribuna, e dalle braccia agli spiriti, l'ha tolta dal luogo dove si esalta e si fortifica, per portarla dove s'indebolisce e si prostra. Dio ha sempre dato l'impero alle razze guerriere ed ha condannato alla servitù le razze litigiose.

    Quello che c'è di grande in questo problema serve a spiegare, da un lato lo sviluppo anormale della intelligenza umana, e dall'altro le conseguenze disastrose che questo stesso sviluppo, per quanto ha di anormale e di gigantesco, trae con sé. Allo stesso modo quello che c'è di insolubile in questo problema serve a spiegare la fine miserabile a cui giungono necessariamente tutte queste cose.

    Nella lotta dell'uomo contro Dio, né l'uomo poteva essere vincitore, né Dio vinto, perché se Dio per rispetto della sua libertà gli ha permesso il combattimento, gli ha però negato la vittoria. È scritto che ogni impero diviso deve perire. II parlamentarismo, che divide e turba gli animi, che disperde tutte le gerarchie, che divide il Potere in tre Poteri e la società in cento partiti, che è la divisione di tutto, ed in tutte le parti, nelle regioni alte, medie, e basse, nel Potere, nella società, nell'uomo, non poteva sottrarsi, non si è mai sottratto e non si sottrarrà giammai all'impero di questa legge inesorabilmente sovrana.

    Per un certo tempo, non molto lungo, il parlamentarismo riesce a mantenersi in piedi incantando le orecchie con il prestigio della parola e offuscando gli occhi con la porpora dell'eloquenza; ma ben presto precipita a terra, perdendo la sua sicurezza ed il suo equilibrio.

    Il parlamentarismo può morire di morte naturale o di mano violenta. La sua morte naturale avviene in questa maniera. Poiché il problema da risolvere consiste, da una parte, nel costituire un Governo vigoroso per mezzo dell'accordo di tre Poteri differenti, e dall’altra, nel dare la libertà agli uomini, resi uguali dalla soppressione delle gerarchie, il Potere comincia, naturalmente, col passare nelle mani di quelli che per la loro grande intelligenza si trovano nella possibilità di dare la soluzione di questo difficile problema, traendo la libertà dall'uguaglianza ed un Governo vigoroso da un Potere diviso.

    Arrivati al Potere, messi faccia a faccia con il terribile problema e con il pauroso enigma, la loro base comincia a vacillare, la loro testa soffre di vertigini, e la loro intelligenza si indebolisce; le azioni non corrispondono alle parole, il problema non si risolve e la promessa non si compie. Allora vengono i grandi tornei parlamentari, e si cerca di appurare perché l'enigma non si scioglie, perché non si risolve il problema, perché non si compie la promessa, e perché le cose dette non sono state fatte. Ecco quindi le crisi ministeriali, i frazionamenti della maggioranza, il rancore degli animi, l'accendersi delle passioni. Le maggioranze diventano incerte, i Ministeri stabili diventano impossibili; un Ministero si sussegue a un altro, un oratore a un altro, e tutti avanti così, in un rapido e vorticoso turbine.

    Il parlamentarismo comincia con l'offrire alla società un Governo vigoroso, ma fin dai primi passi la abbandona senza protezione perché la lascia senza Governo.

    Frattanto incominciano ad agitarsi ed a fare il loro ingresso in scena i muti spettatori di questo grande spettacolo. Tra questi, alcuni stanno più vicini a quella fornace incandescente ed altri più lontano. I primi sono generalmente uomini di scarso intendimento e di debole volontà, condannati da Dio ad una perpetua mediocrità; gli altri sono abitanti di non so quale inferno, in cui la società li relega, timorosa dei loro istinti violenti. La società, turbata in tutti i suoi strati (da quelli altissimi ai più bassi), dallo strepito delle liti parlamentari, si scuote tutta in una volta, ed i cuori, con ansiosa incertezza per l'avvenire, sono colti da timore e spavento. Allora per l'atmosfera si spargono vaghi e timorosi rumori contro coloro che da soli occupano il campo di battaglia. Udite attentamente ciò che si dice di essi. Di uno si afferma che è poeta e che serve solo per conversare con le muse; di un altro, che è filosofo e che non s'intende d'altro che della sua filosofia; di questo, che è inadatto all'azione, e che risolve tutto con le chiacchiere; di quello, che è ambizioso e vecchio; di tutti, che sono Burgravi, cioè li si condanna al maggiore di tutti gli obbrobri ed alla più grande delle ignominie.

    Quando ciò avviene, allora i fondatori ed i sostenitori del Governo parlamentare, e anche lo stesso Governo parlamentare, sono perduti senza rimedio. Il problema li uccide perché non hanno potuto risolverlo; e non avendo potuto trovare la soluzione dell'enigma, vanno a cadere nella gola della sfinge. Se non muoiono per mano violenta, come di solito accade, l'invidiosa mediocrità si impadronirà di essi, e li strapperà dalla tribuna, teatro della loro eloquenza, e dalle loro sedie curiali, mute testimoni delle loro glorie. Questa evoluzione mi sembra logica, necessaria, inevitabile, lì dove il parlamentarismo ha la disgrazia di non morire violentemente. Io non so se vi sia sulla terra uno spettacolo più solennemente triste e un insegnamento più grande di quello della mediocrità che guarda l'intelligenza dall'alto in basso, e di quello del silenzio, signore della tribuna da cui parlò l'eloquenza. Questo somiglia nell'ordine morale a ciò che succederebbe nell'ordine fisico se vedessimo il monte posto sotto la valle e la valle in cima al monte. Tremendo, ma giusto castigo di coloro che tentarono, nella loro pazzia, di scalare il cielo e cancellare nella creazione l'impronta augusta delle concezioni divine!

    Che il parlamentarismo muoia per mano violenta è cosa risaputa. Muore quando si presenta un uomo che ha tutto ciò che manca al parlamentarismo; che sa affermare e sa negare, e perpetuamente afferma e nega le stesse cose: muore quando le moltitudini, giunta la loro ora provvidenziale, chiedono avidamente di assistere, ed assistono, al festino parlamentare; muore lasciando la società nelle mani della rivoluzione e nelle mani della dittatura, che ne prendono l'eredità, ad un tempo, e per la forza del diritto e per il diritto della forza. Per il diritto della forza perché sono le più forti; per la forza del diritto, perché sono sue figlie.

    Non ignoro che questa progenitura è sconosciuta e negata, ma io l'affermo risolutamente, e la dimostro in tale modo che in futuro non potrà essere né negata né disconosciuta. Questa grande questione non ha bisogno, per essere risolta, che di essere ben impostata. Cosa fa il parlamentarismo? Divide il Potere e sopprime le gerarchie. Quando muore cosa lascia dietro di sé? O un Potere armato della forza sociale dinanzi ad individui dispersi o una massa furiosa dinanzi a un Potere diviso. Ora io chiedo: cos'è questo secondo potere se non una rivoluzione? Cos'è il primo se non una dittatura? E cosa sono la rivoluzione e la dittatura se non figlie della sua volontà, ossa delle sue ossa e carne della sua carne? Conosciuto il parlamentarismo nella sua origine, nella sua natura e nella sua storia, mi manca solo definirlo, e lo definisco così: il parlamentarismo è lo spirito rivoluzionario nel Parlamento.

    La mia condanna non cade sul Parlamento, che è il bicchiere, ma sullo spirito rivoluzionario, che è il liquore. Spandete il liquore che contiene, ed io accetterò il bicchiere; ma quando dico: spandete il liquore che contiene, voglio dire: datemi un Parlamento che non sia un Potere, ma una resistenza al Potere, che è per sua natura limitato, perpetuo ed uno; datemi un Parlamento che non sopprima le gerarchie, perché esse sono per la società ciò che l'unità è per il Potere, cioè la condizione necessaria della sua esistenza.

    Nel combattere il parlamentarismo compio il più santo, ma allo stesso tempo il più doloroso dei miei doveri. Sì, il più doloroso, perché ho molti e buoni amici che furono astri nel firmamento parlamentare; stelle cadute dal cielo e oggi spente da un nuovo sole che ha fatto il suo ingresso trionfale all'orizzonte.

    Questi re della parola e della tribuna sono sempre dei re, per me, sebbene i loro blasoni siano caduti e screditati. Il raggio che toccò le loro fronti li santifica ai miei occhi, perché la maestà dell'infortunio rialza e santifica anche le maestà più eccelse.

    Io lo giuro: se il parlamentarismo non avesse condannato a morte la società con una condanna inesorabile, essi l'avrebbero salvata; per salvarla iniziarono quei nobili combattimenti, dei quali la storia ricorderà perpetuamente la grandezza. Io li ho visti nella loro eroica sfida contendere la società all'abisso che la reclamava come cosa sua; io li ho visti tenerla sospesa tra l'abisso e il ciclo per molti anni e sono rimasto attonito davanti al divino potere dell'eloquenza e al miracolo della parola...

    E perché non debbo dire tutto ciò che sento nel mio petto, anche se in esso non v'è che debolezza e miseria? Io non ho coraggio per condannare l'eloquenza, anche se è colpevole. La condannino i giusti; quanto a me, non so come avvenga; ma, quanto più il suo peccato mi offende, quanto più ella pecca, tanto più io continuo ad amare questa bella peccatrice.

    Il suo affezionato e rispettoso

    Marchese di Valdegamas


    Rassegna stampa - Centro Cattolico di Documentazione di Marina di Pisa - RISPOSTA AL SIGNOR DE BROGLIE

  7. #7
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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

    Caro Signore Hyeronimus:
    Sono veramente interesatta.
    Grazie tante.
    "Solo Dios sabe hacer de los venenos remedio".
    Francisco de Quevedo

  8. #8
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    Re: Donoso Cortés: Alcuni dei suoi scritti

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