Spagna 1808. “Guerrilla” antinapoleonica di Alberto Leoni

L’arroganza dl Napoleone incontrò la resistenza del popolo spagnolo. Nel 1808 inizia l’insorgenza spagnola, una delle tante che contribuirono a far fallire il dominio francese sull’Europa.

[Da «il Timone», n. 71, marzo 2008]

Quando si pensa alla resistenza spagnola contro Napoleone è inevitabile ricordare alcune opere del celebre pittore Francisco José de Goya (1746-1828), come “Il 3 maggio” o la serie di acqueforti note come “I disastri della guerra”, di una violenza e di una crudezza ancor oggi agghiaccianti. Il punto è che queste atrocità rispecchiano perfettamente quella che fu una guerra senza quartiere. Dopo la firma del trattato di Tilsit con la Russia (1807), Napoleone poté concentrarsi contro l’Inghilterra, per piegarla economicamente per mezzo del blocco continentale. Cosa più facile a dirsi che a farsi, perché la flotta britannica manteneva le proprie basi in Portogallo. Quanto alla Spagna era una tiepida alleata ma fu assai agevole, per Napoleone, farvi passare un corpo d’armata di 20.000 uomini e conquistare Lisbona il 28 novembre 1807.

Questa nuova offensiva era stata di tale irrisoria facilità da far concepire a Napoleone uno dei suoi piani più grandiosi e temerari, frutto di un’arroganza e di una prepotenza pari solo alla forza militare di cui disponeva. Detronizzare i Borboni come aveva fatto con i sovrani di Napoli; riunire Francia e Spagna dando la corona al fratello Giuseppe e mettere le mani sulle (ipotetiche) risorse economiche dell’impero spagnolo per civilizzare la penisola iberica e farla risorgere dall’arretratezza e dalla miseria. Il re Carlo IV era un debole inetto e così suo figlio Ferdinando che cospirava per detronizzarlo, ma chi dominava la Spagna era Manuel de Godoy, l’astuto e corrotto favorito della regina Maria Luisa, primo ministro del regno dal 1792 (a soli venticinque anni) al 1808. Sempre secondo Napoleone, l’esercito non avrebbe fatto resistenza, il popolo era abbruttito e bigotto e fra la borghesia e l’aristocrazia vi erano numerosi afrancesados che avrebbero collaborato col dominatore francese, così come era accaduto in Italia.

Napoleone, tuttavia, sottovalutava quelle che erano state le insorgenze antigiacobine italiane, quando il popolo e i “lazzaroni” avevano dato parecchio filo da torcere alle armate francesi. Bonaparte non aveva mai creduto nell’efficacia di una guerra di popolo e fu questo a fargli commettere uno degli errori più gravi di tutta la sua carriera. Nell’aprile del 1808 una sommossa popolare, favorevole all’infante Ferdinando, rovesciò il governo di Godoy. L’imperatore colse l’occasione e convocò a Bayonne, in Francia, sia il re che Ferdinando, i quali si umiliarono davanti a lui chiedendo il suo sostegno. Napoleone avrebbe potuto accontentarsi di una misura intermedia: far abdicare il re a favore del figlio e mantenere Ferdinando sotto tutela francese, ma Bonaparte non era tipo da mezze misure. Così, Carlo IV fu costretto ad abdicare a favore di Giuseppe Bonaparte. Era il 30 aprile 1808. Due giorni dopo, a Madrid, anche l’infante Francesco, il figlio più piccolo del re, veniva fatto salire su una carrozza per essere portato in prigionia in Francia. La folla si ribellò e scoppiarono tumulti. Contro i manifestanti vennero lanciati alla carica i cavalieri della guardia mamelucca, che staccavano teste con le loro lucenti scimitarre. Nel vedere questi cavalieri egiziani e musulmani al servizio degli atei francesi, il popolo di Madrid non poté non ripensare all’epoca della Riconquista: e cosi fu, dando vita a un’insurrezione che fu repressa a fatica. Il danno era fatto: dopo le fucilazioni del 3 maggio tutta la Spagna divenne un campo di battaglia.

Chi cominciò la resistenza? Innanzitutto il popolo minuto, guidato e incoraggiato dal clero, anche se in misura minore rispetto a quanto sostenuto dalla propaganda francese. La verità era che il fronte del patrioti fu molto composito e i liberali e gli illuministi, delusi dalla prepotenza francese, vi ebbero un ruolo sempre più preponderante. Fu merito del governo provvisorio spagnolo e dei diversi consigli regionali quello di riuscire a costituire eserciti nelle regioni spagnole ancora libere. L’esercito regolare diede spesso delle pessime prove ma riuscì nell’impresa di annientare il corpo d’armata del generale Pierre Dupont a Baylen, nell’agosto del 1808. Fu una vittoria così clamorosa che incoraggiò l’Austria a riprendere le armi contro gli oppressori francesi e infranse il mito dell’invincibilità della Grande Armée, tanto che si può dire che la parabola discendente dell’impero napoleonico sia iniziata da quel momento. Nonostante le numerose sconfitte, l’esercito spagnolo ricostituì sempre le proprie armate e divenne più coriaceo e combattivo.

Il popolo, insieme ai reparti regolari, resistette eroicamente in numerosi e terribili assedi come quelli di Ciudad Rodrigo, di Burgos, di Tarragona e, soprattutto, quello di Saragozza (vedi riquadro). L’altra modalità di resistenza popolare fu quella della guerrilla (il termine “piccola guerra” fu coniato allora) che ebbe, come capibanda, comandanti dai nomi pittoreschi come il Mina, il Charro, il Mozzo, il Pastore, il Medico o l’Empecinado (l’infangato). Diversi preti e frati divennero anch’essi capi partigiani e, come accade nelle guerriglie, vi presero parte pure patrioti e banditi da strada e, fra questi due estremi, la gran massa delle formazioni. Certo è che i partigiani contribuirono a immiserire la vita della popolazione con requisizioni e prepotenze, anche se la loro importanza non può essere sottovalutata. Queste bande logorarono e dissanguarono l’esercito francese, terrorizzandolo con la ferocia della propria condotta. Gli episodi atroci sono tanti, troppi e ben noti: messaggeri inchiodati alle porte, una pelle di dragone scuoiato attaccata a un muro, granatieri sepolti fino al collo e usati come birilli per giocare a bocce, prigionieri segati tra due tavole, mutilazioni orrende e torture sadicamente prolungate: e, come reazione, quelle rappresaglie cieche, indiscriminate e furibonde che furono un marchio di fabbrica dei giacobini nel secolo XIX e dei nazionalsocialisti nel XX. In questi massacri ebbero una parte rilevante anche gli italiani, arruolati sotto bandiera francese e che combatterono con valore degno di miglior causa, e fu anche per questa partecipazione che l’Italia non ebbe voce in capitolo durante il Congresso di Vienna.

Certo è che, nonostante la dedizione, il sacrificio e i lutti di tanti spagnoli, i francesi sarebbero riusciti a imporre il proprio dominio sulla Spagna se non fosse stato per l’intervento dell’esercito britannico, guidato in modo superbo prima da John Moore e poi da Arthur Wellesley, duca di Wellington. Gli inglesi sconfissero sistematicamente tutte le armate francesi che vennero loro incontro e molti marescialli imperiali si rovinarono la carriera. Ma anche questo non sarebbe bastato se, nel 1812, Napoleone non avesse ritirato dalla Spagna le truppe migliori per inviarle in Russia. Fu quest’ultimo, colossale errore a provocare il tracollo francese nella penisola iberica. Se i francesi furono gli sconfitti (e duecentocinquantamila di essi restarono per sempre in terra spagnola) c’è da chiedersi chi furono i vincitori. Non la corona spagnola, perche, di lì a pochi anni, avrebbe perso l’impero delle Americhe, grazie al sostegno dato ai ribelli creoli proprio da quegli inglesi che erano stati alleati e salvatori della corona pochi anni prima; non il popolo che avrebbe visto inalterate le proprie condizioni di miseria; non i conservatori che, nel 1820, avrebbero dovuto far fronte alla ribellione dei liberali.

In definitiva, tante sofferenze avrebbero lasciato un paese sconvolto e con i militari sempre più padroni della situazione. La stessa Chiesa avrebbe impiegato molto tempo prima di riuscire a rispondere in modo organico e sensato alle istanze di rinnovamento indispensabili per sanare la situazione interna spagnola. Per la Spagna iniziava un lunghissimo periodo di rivolte, disordini e guerre civili che si sarebbe concluso soltanto con la vittoria del franchismo e, negli anni Settanta, con il ritorno della democrazia.

In conclusione, se si confronta la “guerrilla” spagnola con la rivolta vandeana (che inizia nel 1793) e le insorgenze in Italia (1796-1815) e in Tirolo (1809), si nota un bizzarro paradosso: a differenza di queste resistenze, tutte represse brutalmente, quella spagnola fu vittoriosa. Manca però, ai capi spagnoli, la magnanimità e il disinteresse degli eroi vandeani, Chatelineau, Lescure o La Rochejacquelein; la pietas del capo tirolese Andreas Hofer; l’intelligenza e la cultura, associata al dinamismo, del cardinale Ruffo di Calabria o di Giuseppe Lahoz. Manca soprattutto, in questa “guerra al coltello”, la misericordia. e la clemenza che, in Tirolo, in Italia e in Francia, illuminarono spesso la resistenza dei cattolici, decisi a difendere le case e gli altari ma ricordando, per quanto era possibile, che anche il nemico era un fratello in Cristo e che, alla fine di ogni guerra, si doveva cercare la pace.

Eroica resistenza

Fra i tanti assedi va ricordato soprattutto quello di Saragozza, nelle fasi iniziali della guerra. La città era difesa da appena un migliaio di soldati regolari e le mura erano tutt’altro che solide ma il primo attacco francese, eseguito il 15 giugno, venne respinto dalla popolazione che si era armata sommariamente, decisa a resistere fino all’ultimo. Il comandante francese era il generale Jean Antoine Verdier, il quale aveva devastato ampie zone del Meridione d’Italia e, data la sua esperienza, pensò di poter conquistare d’assalto la città. L’attacco francese del 28 giugno fu micidiale e le difese della Porta del Portillo vennero sfondate. Un cannone spagnolo era puntato contro la breccia ma i serventi erano tutti caduti. Fu a quel punto che una giovane donna, bella quanto audace, impugnò la miccia e fece fuoco, respingendo le colonne d’assalto. Questa ragazza era Augustina Domenech, che si sarebbe poi battuta eroicamente per tutto l’assedio. Fu un evento che cambiò il corso delle operazioni. Verdier incominciò a far scavare trincee e a bombardare la città ma la sua proposta di resa fu respinta con parole passate alla storia: “Guerra y cuchillo” (guerra all’arma bianca). E così fu. Saragozza venne bombardata per mesi e, nel gennaio 1809, il maresciallo Jean Lannes, uno dei più capaci e combattivi comandanti di Napoleone, riuscì a entrare in città ma Saragazza era divenuta una Stalingrado del XIX secolo. Ogni palazzo, ogni casa, ogni stanza dovettero essere espugnate una per una, spesso facendole saltare in aria. Il popolo sopportò privazioni inaudite e perdite terrificanti in nome di re Ferdinando e, soprattutto, in nome di quella «Virgen del Pilar que non quiere ser francesa/ quiere ser capitana/ de la tropa aragonesa». In febbraio il generale José de Palafox, che aveva diretto la difesa con indefettibile coraggio, accettò le condizioni di resa per evitare lo sterminio totale della popolazione: ben 64.000 abitanti in Saragozza era rimasti uccisi durante l’assedio.

Bibliografia

David Chandler, Le campagne di Napoleone, Rizzoli, 1981.
Charles Esdalle, The peninsular War, Penguin, 2003.
Georges Blond, Storia della Grande Armée, Rizzoli, 1981.
Jean Taulard, Napoleone, Rlzzoli, 1989.
Raymond Carr, Storia della Spagna (1803-1939), La Nuova Italia, 1966.

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