Recensione libraria: Napoli spagnola di Elias de Tejada
(di Gianandrea de Antonellis) In una masseria nei pressi di Buonalbergo, in provincia di Benevento, sul percorso del tratturo che portava dall’Abruzzo alla Puglia, si trovano due tavole in pietra che indicano il pedaggio da pagare per ogni animale portato a pascolare da una regione all’altra. Una è della prima metà del Cinquecento, l’altra di un secolo dopo. Colpisce rilevare che i prezzi sono identici: un segno tangibile della mancanza di inflazione nel tanto vituperato periodo spagnolo.
È quello che lo studioso iberico Francisco Elias de Tejada definisce L’età d’argento, nel sottotitolo del quarto volume della sua monumentale opera Napoli spagnola, pubblicata a Madrid cinquant’anni fa e solo ora proposta in italiano dalla casa editrice Controcorrente (Napoli 2012, p. 622, € 25). Se c’è un periodo che ha bisogno di rivisitazione è proprio quello spagnolo: poco importa che singoli studi sottolineino come i territori dominati dalla Corona spagnola abbiano vissuto un momento di grande ricchezza materiale e fervore culturale, come il barocco sia nato nella Milano vicereale (il primo esempio è dato dalla facciata della chiesa di S. Alessandro) e non nella Roma papale, come a Napoli fiorisse l’arte con la presenza dei migliori pittori ed architetti del tempo, da Fanzago a Caravaggio; il nostro immaginario è comunque legato al giudizio negativo di Manzoni (che peraltro per il suo capolavoro attinse a piene mani dalla letteratura del Siglo de Oro citando letteralmente Lope de Vega e venendo influenzato dall’ironia di Cervantes).
L’opera di Francisco Elias de Tejada, instancabile ricercatore che passò anni nei fondi delle biblioteche di Napoli e Madrid a spulciare le testimonianze della cultura italo-spagnola dell’epoca, rende giustizia ad un periodo ingiustamente vituperato. Il quarto dei suoi cinque volumi, appena pubblicato, dedica l’intero secondo capitolo, molto ampio, a Tommaso Campanella, di cui si analizzano gli scritti e, soprattutto, gli atti del processo: il quadro che ne risulta è a tinte fosche.
Campanella è considerato un folle, non tanto per la finzione posta in essere quando era in carcere, quanto per l’enorme stima che aveva di se stesso e per i continui cambi di casacca. Mentre si trovava sotto processo scrisse al Papa dichiarandosi capace di far tornare al cattolicesimo i principi luterani, se solo fosse stato mandato in Germania (lui, che era accusato di eresia!) a tenere una serie di prediche. La sua Città del Sole, governata non da filosofi, bensì da sacerdoti-astrologi, anticipa una mentalità totalitaria, confermata anche dalla proposta al Re di Spagna di obbligare tutti i suoi sudditi (Napoletani e Milanesi compresi) ad usare il castigliano, cancellando ogni parlata locale.
Se Campanella è giudicato negativamente, Elias de Tejada (ri)scopre alcune figure poco conosciute di studiosi e letterati: tra tutti il più famoso è Giovan Battista Marino, l’autore dell’ Adone e promotore della scuola poetica che da lui prese il nome di “marinismo”, ma c’è anche una lunga serie di poeti, storiografi, politologi che meriterebbero maggiore attenzione. Ma il grande merito del periodo spagnolo fu anche quello di fare dell’Italia (e di Napoli in particolare) la meta di grandi autori: i maggiori scrittori del Siglo de Oro la visitarono e la descrissero; Cervantes, l’autore del Don Chisciotte, che partecipò alla battaglia di Lepanto combattendo sotto le insegne del Tercio (cioè dell’esercito) napoletano, vi sostò a lungo e vi conobbe una donna da cui ebbe un figlio (dal curioso nome di Promontorio).
Insomma, quello spagnolo fu un periodo in cui Napoli importava e non esportava cultura, attirava gli ingegni e non li faceva fuggire… e lo studio di Francisco Elias de Tejada ci permette di riscoprirlo come merita, mettendo da parte il giudizio negativo che ne dette Manzoni. (Gianandrea de Antonellis)
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